Descrizione
ISBN : 88-88926-11-9
(I edizione 2001, pp. 150, € 12,00)
(II edizione 2002, pp. 332, € 24,00)
(III edizione 2004, pp. 332, € 24,00)
IL VOLUME
Lo scopo dell’opera è di fornire un quadro completo e scientificamente strutturato delle questioni riguardanti la conoscenza – argomento di inevitabile interesse in ogni momento della vita quotidiana, oltre che in sede di riflessione scientifica – mettendo in luce il problema fondamentale, che è quello della verità, o meglio della verifica delle ipotesi che ci vengono proposte o che noi stessi formuliamo sulla realtà, negli aspetti che di volta in volta ci interessano. In base a questa impostazione, i modi della conoscenza (l’esperienza, l’inferenza e la valutazione di una testimonianza) sono analizzati nel presente volume in rapporto al “truth-value (il valore-verità)” di ciascuno di essi, nelle concrete situazioni cognitive dell’uomo. Il testo è corredato da un ampio glossario gnoseologico, da materiali per la discussione e da una guida bibliografica per l’approfondimento dei temi qui affrontati.
L’AUTORE
Antonio Livi (Prato, 1938) è professore ordinario di Logica e Filosofia della conoscenza e preside della facoltà di Filosofia nell’Università Lateranense di Roma. Formatosi alla scuola di Étienne Gilson, ne ha portato avanti le ricerche gnoseologiche, prima in rapporto alle condizioni di possibilità di una “filosofia cristiana” e poi in rapporto alla giustificazione del realismo metafisico. Al primo argomento appartengono opere come Il cristianesimo nella filosofia (1969), E. Gilson: filosofia cristiana e idea del limite critico (1970) e Blondel, Bréhier, Gilson, Maritain: il problema della filosofia cristiana (1976), mentre gli studi sul secondo argomento sono Filosofia del senso comune (1990), Il senso comune tra razionalismo e scetticismo (1992), Il principio di coerenza: senso comune e logica epistemica (1997) e Verità del pensiero. Fondamenti di logica aletica (2002). Questi ultimi studi, e il confronto con molti altri studiosi attraverso le pagine della rivista Sensus communis. An Intemational Quarterly for Studies and Research on Alethic Logic, fondata nel 1999, lo hanno condotto a elaborare un’originale e sistematica teoria del “senso comune” come esperienza di base nella quale fondare il criterio assoluto della verità logica, il che rende possibile superare il razionalismo moderno, senza peraltro scadere in qualche forma post-moderna di irrazionalismo. Contro lo scetticismo, che in campo teologico si configura come fideismo. Livi ha pubblicato ultimamente alcuni saggi di epistemologia della fede: Razionalità della fede. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica (2002). Reasons for Believing. On the Rationality of Christian Faith (2005) e Logica della testimonianza. Quando è ragionevole credere (2005).
Roberto Russo –
Il miracolo della conoscenza e la libertà di pensare il mondo
di Roberto Russo
Uno in due
Fin dall’inizio la percezione mi rivela una duplice intenzionalità: rivolta al questo, che percepisco sensibilmente…; non meno del questo, anche l’universale è intuito. Che cos’è questo puro miracolo nella conoscenza?
La constatazione riportata sopra come citazione riguardo alla ‘duplice intenzionalità’, è riemersa in una delle indagini filosofiche più fruttuose del secolo scorso, quella di Edmund Husserl. La parola ‘miracolo’, relativa al fenomeno della conoscenza, è sua (cfr. Carlo Sini, Fenomenologia in La Filosofia, diretta da Paolo Rossi, vol. IV, Stili e modelli teorici del Novecento, pp. 117-146, Utet, Torino, 1995).
L’osservazione di Husserl ci è ritornata in mente più volte leggendo il libro di Antonio Livi (La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, II ed., Ed. Leonardo da Vinci, Roma, 2003), professore ordinario di Filosofia della conoscenza nella Pontificia Università Lateranense di Roma. In esso, infatti, il rilevamento della ‘duplice intenzionalità’, intrinseca allo stesso atto cognitivo (la percezione), si presenta come il contenuto essenziale a cui approda la riflessione sulla conoscenza come tale.
Polarità necessarie e intrascendibilità del pensiero
Il processo conoscitivo rilevato nella riflessione sull’esperienza e i dati essenziali che ne costituiscono la sua base fenomenologica, suggeriscono a Livi di riferire il discorso sulla conoscenza richiamando alcuni presupposti fondamentali.
In primo luogo, si deve dire che nella conoscenza, ossia in quel fenomeno che riassume il rapporto tra soggetto e oggetto (il mondo) in giudizi sintetici, tutto quanto è conosciuto lo è mediante il pensiero (atto di coscienza). Pertanto, filosoficamente, dal pensiero non si può ‘uscire’. Ciò viene riferito dicendo che è impensabile un trascendimento del pensiero da parte del pensiero medesimo (pp. 24-25, 75, 268-269). In secondo luogo, va detto che nella conoscenza sono comunque necessariamente implicati un soggetto e un oggetto, non riducibili l’uno all’altro (pp. 92-93, 78-82, 75, 81-82, 30). Cadono qui alcune precisazioni che rappresentano i fondamentali della riflessione del nostro autore.
Il pensiero, afferma Livi, non è mai pensiero vuoto (questione dell’intenzionalità – pp. 84-86, 78-79, 32), in quanto “relativo alle cose e ordinato ad esse” (p. 32). A darsi sempre quale contenuto del pensiero, infatti, è l’oggetto della conoscenza (pp. 78-79, 84, 86, 102-103, 268-269,) e non l’ente che resta primo ed altro rispetto al soggetto che lo coglie e lo riferisce (pp. 84-85, 90, 102-104, 127-129), sia pure mediante il pensiero. Il pensiero, ancora, può sì essere rilevato come “l’atto di un soggetto capace di possedere intenzionalmente le cose … e quindi anche se stesso” (p. 25), ma la riflessività del pensiero segue logicamente la conoscenza del mondo (pp. 130-131, 268-269) che muove dall’esperienza dell’esistenza delle cose (pp. 89-90, 104-105, 129-130, 263-266).
Questi rilievi, riferiti come i contenuti del contributo decisivo offerto all’indagine sulla conoscenza dalla filosofia antica e medioevale, vengono ripresi, sviluppati e presentati da Livi, nel quadro della filosofia del ‘senso comune’ (pp. 195-204, 266-271). In quest’ultima trovano spazio gli apporti della riflessione filosofica sul linguaggio e quelli dell’indagine fenomenologica (pp. 68-95).
Dentro l’unità
Il percorso della conoscenza, viene descritto da Livi ponendo alla base di esso, con Tommaso d’Aquino, l’unità dell’esperienza, quale ‘momento’ in cui si esprime filosoficamente (ecco spuntare Husserl) l’inscindibilità tra percezione sensibile e conoscenza intellettuale, intellectus e ratio; anche se tale unità, precisa Livi, va colta e trattenuta come unità nella distinzione (pp. 40, 128).
Innanzitutto viene rilevato che l’intelligenza è sempre sinteticamente tutta presente a se stessa, apprende e giudica allo stesso tempo. Vengono poi descritti i ‘momenti’ della conoscenza. Nell’ordine: 1) la percezione sensoriale, in cui si fa presente al soggetto l’esistenza delle cose materiali del mondo, così come sono percepite attraverso i sensi; 2) la semplice apprensione, in cui si coglie l’essenza delle cose (ma questa è legata all’apprensione dell’essere, attuata nel giudizio – pp. 40-42, 126-132); 3) il giudizio, in cui viene colto l’atto di essere e l’essere stesso delle cose, ossia l’essere come presente in tutte le cose dell’esperienza e ad esse attribuito, ma allo stesso tempo come non essenzialmente legato alle stesse (pp. 40-42, 133-134).
Una lunga citazione (p. 38) di Martin Heidegger, mette in luce il senso e l’intento di buona parte dell’indagine svolta dal nostro autore. Scriveva il filosofo tedesco:
“Se riflettiamo a che cos’è che avviene quando un albero in fiore ci si presenta davanti e noi possiamo collocarci di fronte ad esso, allora finalmente ci renderemo conto che la cosa importante è innanzitutto non far scomparire l’albero ma lasciarlo dove sta. Perché dico “finalmente”? Perché la filosofia moderna non lo vuole finora lasciare stare. Invece sulla base degli studi storici sul pensiero occidentale sappiamo che Aristotele … fu un realista, ossia una persona che afferma l’esistenza del mondo in cui si trova e la sua conoscibilità … E su questo punto non cadde mai in errore neppure Platone, e tantomeno vi caddero Eraclito e Parmenide”.
Anche nell’indagine dei filosofi analitici si “riconosce ormai che la prima apprensione intellettuale … è il mondo delle cose nella loro multiforme correlazione e interrelazione” (p. 131). Così il filosofo anglossassone John Searle (p. 131):
“C’è un mondo reale che esiste indipendentemente da noi … le parole possono essere usate per riferirsi a e per parlare di oggetti reali del mondo; i nostri enunciati sono veri o falsi a seconda che corrispondano o meno a come le cose sono, cioè ai fatti del mondo”.
Livi stesso parla della verità come corrispondenza (pp. 252-253, 254-255, 106-108, 268) ma anche qui facendo una serie di precisazioni. Così scrive: “la nozione di verità come adaequatio non implica quindi l’idea della conoscenza come copia di qualcosa di esterno …; presuppone invece la conoscenza come possesso intenzionale delle forme proprie dell’oggetto, cui segue la riflessione su questo possesso, la quale sfocia nel giudizio…” (p. 107). La riflessione sulla verità viene in tal modo ad intrecciarsi con quella sulla conoscenza in senso proprio, segno della considerazione centrale del soggetto (che conosce), sia nel processo dell’apprensione (cosa conosce) che nel riferimento della conoscenza (come conosce) (pp. 40-42, 75, 90-91, 106-109, 128-136, 268-271). Ciò conduce ad affermare che il carattere riflessivo della conoscenza nel suo momento definitivo e la capacità di possedere intenzionalmente la realtà, entrambi attuati nel giudizio, permettono di rilevare la verità come contenuto di quest’ultimo (p. 107, 133); ma, in quanto si dà “l’ente come prima percezione del reale che indica l’essere” (pp. 128-129, 133-134, 103, 90) e l’essere come fondamento della conoscenza e radice del conoscere (e non il contrario, sia pure se lo stesso termine ‘conoscenza’ ed il suo significato sono tanto implicati con l’essere che con essi “ci si rimanda a qualcosa di coestensivo con l’essere” stesso – pp. 69, 63, 36, 90), si deve concludere che la verità non ha il suo fondamento nel soggetto. Ciò che si ‘trova’ nella conoscenza sin dall’inizio e a cui non si può in qualche modo non farvi riferimento, ha una sua propria consistenza ed è indipendente da esso (pp. 128-130). L’adeguazione, quindi, deve sì intendersi come l’accordo tra l’intelletto e la realtà conosciuta dal soggetto, ma la realtà non può essere ridotta all’oggetto del pensiero, cioè al conosciuto (Kant), o all’atto del pensiero medesimo (Cartesio) (pp. 90-91, 44-48, 108-109, 254-255, 259-260, 268). Con Gilson, Livi conclude la definizione della questione affermando che essendo la verità dell’ente colta a partire dall’atto di essere (che sfugge al concetto ma) che cade sotto la presa del giudizio d’esistenza, la verità riferita in esso, in ultima analisi, poggia sull’essere in atto al di là dell’essenza; senza, però, che questa dualità significhi “che l’uno (l’atto di essere) non sia in rapporto con l’altra (essenza), tanto dal punto di vista ontologico che da quello noetico” (pp. 133-136, 90, 106-108, 128-130). Scrive Livi: “Questa apprehensio entis consiste nell’apprensione del plesso metafisico ens/esse; ciò è reso possibile dal fatto che la fenomenologia della conoscenza attesta una convergenza dei dati sensibili e dell’intuizione intellettiva in un unico soggetto” (p. 128).
Nel rilievo di questa convergenza e di ciò che riflessivamente la svela, il discorso di Livi raggiunge, delineandolo, il suo confine propriamente teoretico, ma solo per muovere oltre. Lo sviluppo ulteriore della sua indagine può essere riassunto richiamando tre fondamentali categorie presenti nel suo discorso: esperienza, io, Dio.
L’esperienza: verità della conoscenza
L’esperienza quale conoscenza immediata e perciò indubitabile (pp. 117-127), si presenta come non riducibile alla dimensione sensistica ma includente l’intuizione immediata degli enti percepiti attraverso i sensi. Non è, così intesa, un’esperienza particolare ma è comune a tutti ed è di per sé permanente: richiama ciò che dell’esperienza è sempre presente in tutti. Tale esperienza possiede in forza della sua natura e dei suoi caratteri (immediatezza e indubitabilità) il maggior grado di certezza possibile (si vedano in proposito anche il capitolo conclusivo su Le rinuncia alla ricerca della verità (pp. 273-287) e più in generale il rapporto tra logica aletica e logica formale – pp. 54-60, 251-256, 289-291). È questa esperienza che Livi riferisce come originaria, trovandosi alla base di ogni conoscenza e avendo come fondamento l’apprensione dell’essere degli enti, secondo quella dinamica che abbiamo cercato di riferire sopra. La non riducibilità dell’esperienza alla dimensione sensistica, porta a descrivere l’esperienza stessa riferendosi, per così dire, a diversi livelli, non senza individuare, però, alcuni suoi contenuti essenziali.
Dall’io…
Il discorso di Livi muove dall’esperienza della soggettività (pp. 138-144). Essa emergere portando alla luce l’io attraverso un percorso conoscitivo incentrato sulla relazionalità riflessa di affermazione e negazione di sé rispetto a ciò che è immediatamente presente: conosco le cose del mondo (affermazione), ma le cose del mondo che conosco non sono io (negazione). In un passaggio del libro è richiamata la peculiarità della conoscenza di sé (autocoscienza) e la sua irriducibilità a prodotto della relazione con ciò che sta fuori di sé. Scrive Livi: “la ricerca fenomenologica … ha messo in chiaro la specificità dell’autocoscienza arrivando a ipotizzare la conoscenza di sé come un ‘oggetto speciale’ che sarebbe frutto non di una vera e propria ‘funzione riflessa’ ma di una ‘funzione riflessiva’ “(p. 143). Al cuore dell’esperienza soggettiva si trova l’esperienza morale (pp. 144-166), manifestandosi come percezione relativa al rapporto con gli altri ed informando non la valutazione occasionale di un comportamento, ma la natura (differenza qualitativa) dei rapporti tra i soggetti, approdando alla formulazione dei principi. Va perciò differenziata dall’obbligo morale (riferito alla situazione concreta) e dalla coscienza morale (atto del soggetto vincolante in relazione alla situazione concreta). L’essenza relazionale che sta alla radice del fenomeno (senza del quale per altro il fenomeno resterebbe inintelligibile) porta, così, a respingere la concezione che vede l’esperienza morale e la fondazione dei valori, come qualcosa di assolutamente relativo al costume o all’agire sociale. A fondare l’esperienza morale neppure può essere la norma o il dovere in loro stessi. E’, invece, il soggetto nella sua costitutiva relazione alla verità e al proprio bene. Il discorso di Livi riferisce in diverso modo il primato della conoscenza sulla volontà e sul dovere. L’agire morale, infatti, in ogni caso riflette l’esperienza di vivere “della presenza di una totalità di senso” (Robert Spaemann, cit. a p. 147). E da qui l’autore muove per parlare anche di relazione biunivoca tra logica materiale e logica formale, prendendo in esame la relazione tra cognitività e normatività (pp. 158-160), e giungendo ad affermare che “una norma diventa concreta ed efficace obbligazione per la coscienza del soggetto solo dopo che questi l’ha riconosciuta come assolutamente vera in sé stessa e assolutamente vera per lui” (p. 144).
…a Dio
“Esistono esperienze antropologiche originarie (lo stupore e la felicità, il dolore per la morte dei propri cari, la percezione della propria colpa) che mostrano l’impossibilità per l’uomo di autocomprendersi e di realizzarsi compiutamente in questa vita e che … reclamano un autotrascendimento intellettivo. Così intuito, Dio resta però il mistero per eccellenza: di Lui non si sa nulla, ma che debba esserci un Dio … è evidente. Lo chiameremo il Dio ignoto” (p. 169).
Con queste parole, Livi introduce il contenuto dell’esperienza religiosa (pp. 166-180), come consapevolezza del mistero, dell’inadeguatezza costitutiva a penetrarlo che si traduce in una autocritica continua. Oggetto di questo livello dell’esperienza non è Dio in sé, non la sua presenza, ma la sua assenza; e tuttavia la sua presenza come origine, causa o principio del mondo. Ad essere ‘necessaria’ e ‘spontanea’, scrive Livi, è l’esito di un’inferenza che riferisce Dio come l’unica ragione capace di spiegare in maniera unitaria tutto: il fondamento dell’esperienza umana, del mondo, dell’io, della coscienza e dei valori morali. Ovunque vi è traccia di una esistenza ricevuta. Va notato, però, che il mistero di Dio resta penetrabile soltanto ad una forma di conoscenza che trascende quella propria dell’esperienza: la fede (pp. 205-215). “Si dà il fenomeno della fede allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza di sapere qualcosa circa un oggetto che gli è inevidente … e Gesù è il testimone degno di fede” (pp. 205, 204-243). Tuttavia, in quanto la fede si riferisce ad un contenuto reale, sia pure se non evidente, essa non può non svilupparsi come conoscenza (razionalità); senza della quale non potrebbe darsi l’assenso della fede stessa. Ed è qui che viene richiamato il valore della conoscenza naturale. Essa svolge un ruolo decisivo nel verificare la veridicità dei ‘segni’ che si rivolgono alla conoscenza (praeambula fidei – pp. 236-240) e alla disposizione (‘motivi di credibilità’ – pp. 240-246) nel passaggio alla fede; lasciando intatto lo spazio della libertà che è quasi assenso stesso. E il rilievo del ruolo decisivo della libertà deriva dalla constatazione che la forza delle ‘ragioni’ per credere finisce con l’essere annullata se vi si oppone il pregiudizio, la diffidenza o la cattiva disposizione dell’anima o della coscienza. Con il cardinal Newman, Livi testimonia: “Io sono persuaso che il rifiuto del cristianesimo deriva da un difetto del cuore, non dell’intelletto; l’incredulità non nasce mai da un mero errore di ragionamento, ma nasce o dalla superbia o dalle passioni” (John Henry Newman, cit. a p. 245).
La destinazione della conoscenza
Si può dire che termina qui il percorso di Livi. Tutto il discorso ci è sembrato teso a mostrare il movimento della conoscenza che volta per volta sviluppa il riconoscimento di un primato successivo. Così dall’esperienza sensibile alla conoscenza dell’oggetto, dal giudizio all’ente in sé sussistente, dall’io a Dio; e tutto quanto come se fosse in un certo senso già dato all’interno del ‘primo’ movimento della conoscenza, come se ciò che si trova alla fine illuminasse l’inizio. Anche per questo nel cammino della conoscenza diventa decisivo, da una parte, il rapporto con chi ci ha preceduto (la tradizione) e ci precede (il maestro) (cfr. pp. 209-211), dall’altra, la fedeltà ai luoghi della vita della conoscenza. Ed è forse qui che si coglie il valore supremo dell’educazione a cui è affidato il compito di mostrare nel tempo quello che è stato detto essere il fine di tutti i rapporti e di ogni conoscenza: un destino di bene.
Roberto Russo
Casa Editrice –
Alcuni giudizi su La ricerca della verità di A. Livi
Il testo permette di introdurre gli studenti al realismo metafisico, ad un pensiero critico e sensibile alla questione della verità, tanto prezioso in questi nostri tempi di relativismo e scetticismo imperante. Gli studenti concludono il corso con un sincero: «Abbiamo capito, finalmente, a cosa serve la filosofia della conoscenza!». Questo entusiasmo deriva soprattutto dall’impostazione metodologica che, attraverso la “tripartizione” dei modi della conoscenza (conoscenza mediata-immediata-per fede e testimonianza), permette loro di studiare la gnoseologia facendo riferimento a concrete situazioni cognitive.
Prof.ssa Claudia Mancini – ISSR “Toniolo” di Pescara
«Il testo è inserito nella collana: ” Propedeutica Filosofica. Iniziazione alla filosofia della conoscenza ” ed ha quindi un carattere introduttivo e finalità prevalentemente didattiche. L’Autore è un noto docente dell’Università Pontificia Lateranense che al senso comune ha dedicato originali analisi che in altra occasione abbiamo commentato in questo giornale. La ricerca della verità, il tema centrale del saggio, si sviluppa in un itinerario che dal senso comune porta alla dialettica. L’esperienza sensibile, da cui la dottrina classica, aristotelica e tomista fa iniziare la ricerca filosofica, nelle prospettive di Antonio Livi, rifluisce nella nozione di ” senso comune ” e si allarga a comprendere ogni elemento concreto presente nel vivere e riflettere quotidiani, sia a livello di conoscenze comuni che a quello di conoscenze scientifiche. Tutto ciò si chiarisce e si risolve in un movimento dialettico del pensiero che, guidato dalla domanda fondamentale sul senso della realtà, trova nell’idea di verità il suo centrale riferimento. Il carattere introduttivo e didattico del volume situa il tema centrale in un ampio ed articolato contesto speculativo in cui, con efficace chiarezza, l’Autore delinea una compiuta teoria della conoscenza investendo temi che delucidano, tra l’altro, le modalità conoscitive dell’inferenza e della testimonianza. Ne nasce una piccola summa sul tema della conoscenza, arricchita da un puntuale ed ampio glossario che fornisce al lettore una ulteriore precisazione terminologica e favorisce il formarsi di una chiara conoscenza di concetti e di usi linguistici. Non mancano alcuni riferimenti storiografici e una bibliografia essenziale e facile a reperirsi».
Armando Rigobello, in L’OsservatoreRomano, 13 Mazo 2002
«Il tema della verità sta al centro di questo libro di Antonio Livi : con esso l’autore ha inteso fornire un quadro completo e scientificamente strutturato delle questioni riguardanti la conoscenza, mettendo in luce il problema fondamentale, che è quello della verità. Livi si dimostra preoccupato della deriva scettica del pensiero contemporaneo, e si mette alla scuola di Sant’Agostino e di San Tommaso, di Vico e di Reid, di Rosmini e di Newman, che fecero della battaglia contro lo scetticismo uno dei punti qualificanti della loro filosofia, nella convenzione che lo scettico non mina soltanto le basi della conoscenza ma anche quelle della vita umana nella sua interezza».
Maurizio Schoepflin, in Toscana oggi, 14 Aprile 2002
Francesco Pistoia –
La ricerca della verità
Recensione di Francesco Pistoia, in Filosofia oggi, 2002, pp. 268-270
Antonio Livi insegna filosofia della conoscenza nell’Università Lateranense e nell’Università della Santa Croce di Roma, dirige le Edizioni “Leonardo da Vinci”, promuove collane di studi sul pensiero contemporaneo con la collaborazione di estimatori e di discepoli. In primo piano nel dibattito filosofico soprattutto attraverso la rivista “Sensus communis (an International Quarterly for Studies and Research on Aletic Logic)” e la “Grande enciclopedia epistemologica” (sino a qualche tempo fa supplemento della rivista “Cultura e libri”), è attivamente impegnato nella ricerca e nell’approfondimento delle metodologie che un’indagine scientifica rigorosa presuppone. Insegnamento e ricerca sono l’anima di un apostolato di cui si avverte oggi, in particolare nell’ambito del cristianesimo, un forte bisogno: momenti di carità intellettuale nello spirito di Tommaso e di Rosmini. Momenti che illuminano il cammino operoso di Livi attraverso la storia della filosofia (Il cristianesimo nella filosofia; Etienne Gilson: filosofia cristiana e idea del limite critico; Blondel, Bréhier, Gilson, Maritain: il problema della filosofia cristiana; Le ragioni del tomismo; Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano), attraverso ‘la riflessione sistematica e creativa (Filosofia del senso comune; Il senso comune tra razionalismo e scetticismo; Il principio di coerenza: senso comune e logica epistemica), attraverso l’orientamento didattico mirato al dialogo vivo coi giovani (La filosofia e la sua storia; Lessico della filosofia; Dizionario storico della filosofia). E ai giovani, appunto, e a quanti avvertano il bisogno d’impegnarsi nella ricerca della verità, è dedicata la collana “Propedeutica filosofica”, che ospita Borruso, Melendo, Seidl, Rossi, Pangallo. Nella stessa collana esce La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica (cui si unisce A che serve la filosofia e perché se ne studia la storia dello stesso Livi).
La ricerca della verità, dice Livi riportando in esergo le parole di san Tommaso, è esigenza presente in tutti gli uomini. La filosofia della conoscenza, o gnoseologia, indica i sentieri da percorrere per impostare in modo corretto ed efficace tale ricerca. E c’è da fare innanzitutto una premessa fondamentale: non c’è un primato della vita o un primato della prassi. Dal «primato del pensiero non si scappa. E il pensiero è sempre, fondamentalmente, ‘pensiero della verità’, è ricerca della verità» (p. 9). E dunque occorre pensare e pensare con la propria testa, come insegnano i filosofi veri. Chi non pensa con la propria testa, chi non s’impegna a riflettere, ad affrontare personalmente la fatica della ricerca, a porsi personalmente il problema della verità, «rischia di farsi guidare nelle proprie scelte, anche quelle più importanti, dal criterio degli altri, dalle ideologie dominanti, dai persuasori occulti». E tutto questo costituisce un pericolo per la libertà delle persone nonché per la democrazia (p. 11).
La prima parte dell’opera presenta natura e metodo della filosofia della conoscenza e ne traccia un limpido profilo storico. Sono esaminati, con esemplare chiarezza didattica (si veda il ricco Glossario nella parte finale del volume) i termini del discorso: antropologia, critica, ideologia, psicologia, gnoseologia, criteriologia, teoria della conoscenza, epistemologia, filosofia della mente, filosofia della conoscenza, filosofia della scienza. E ancora: empiria, metafisica, soggetto, oggetto, fenomenologia, linguaggio, logica e analisi logica del linguaggio, sensazioni, idee, mente e corpo, futuro, interpretazione, pensiero e realtà, verità e falsità, giudizio, dati, dialettica (dei presupposti, del progresso, dei contrari), conoscenza ordinaria, evidenze, fede… Rileva il Livi: Parmenide ha intuito «che la struttura della verità è di tipo relazionale»: e la concezione della verità come conformità della mente con la realtà «è stata poi recepita nella formulazione medioevale, che è quella forse più comunemente conosciuta, di “adaequatio intellectus et rei”, che Tommaso riprende da Isaac ben Israeli, tramite Avicenna, e utilizza a più riprese (…), ma che va intesa nel suo senso proprio, che non è quello attribuitogli da gran parte della filosofia moderna» (p. 21). La nozione classica di verità, al centro dell’indagine liviana, comporta l’apertura di un discorso ampio su figure fondamentali della storia della filosofia: Aristotele, Agostino, Anselmo, Platone, Cartesio, Kant, Vico, Heidegger. Soprattutto su Tommaso, talvolta accostato a Rosmini (p. 190), il quale «ha una grande e profonda intuizione dell’unità dell’esperienza, che significa unità tra percezione sensibile e conoscenza intellettuale, tra prima operano intellectus e giudizio, tra intellectus e ratio: unità, certamente, nella distinzione, che analiticamente viene precisata dalla gnoseologia tomista, ma però mai giunge al punto da attribuire valore autonomo a uno dei singoli momenti della conoscenza» (p. 29).
Livi chiarisce e approfondisce i termini della filosofia della conoscenza e del processo conoscitivo a cominciare, appunto, da “conoscenza” e “verità”, passando attraverso l’analisi di una serie di “parole” (apprendere, riflettere, pensare, sapere, vedere, ricordare, immaginare, ragionare, dubbio, giudizio, opinione, scienza, rapporto soggetto-oggetto). E sottolinea: la struttura metafisica della conoscenza è “triadica”: soggetto-oggetto-relazione (p. 59). E spiega, nella stessa pagina: «Con la conoscenza l’uomo è capace di ‘oggettivare’ tutto ciò che vive dentro di sé e fuori di sé. Egli si rende capace di prendere le distanze da tutto ciò che non è egli stesso: ogni cosa che egli conosce lo rinvia, proprio in quanto oggetto della sua conoscenza, a ‘lui stesso’ come soggetto. Noi esprimiamo linguisticamente questa esperienza con la parola ‘io’. Il nostro ‘io’ diventa il punto centrale del nostro mondo; ma noi ci distacchiamo con la riflessione anche da questa totalità che ci avvolge, perché la ‘oggettiviamo’». A più riprese il discorso torna sui modi e sugli strumenti e sulle leggi che governano il processo conoscitivo, sulla struttura e sull’origine del conoscere: logica, logica formale e logica materiale, intenzionalità, inferenza, esperienza…
Cuore della ricerca e del pensiero del Livi è la filosofia del senso comune, che riporta, per quanto riguarda il pensiero moderno, a Vico, a Reid, a Balmes, a Garrigou-Lagrange, a Maritain. La logica “aletica” comanda lo statuto epistemologico della filosofia e del processo conoscitivo e fa emergere dati e motivi che impegnano in modo rigoroso il filosofo. Primo punto: verità dell’esperienza contra agnosticismo fenomenistico. Lo scettico ha le sue certezze, «quasi sempre di tipo utilitaristico, quasi sempre orientate a sfruttare l’ignoranza e la credulità delle masse, e per questo inconfessabili» (p. 13). Lo gnosticismo va aggredito alle radici. C’è da dire in particolare — altro punto — che l’esperienza include la nozione di Dio: «Ogni dimostrazione dell’esistenza di Dio presuppone la nozione di Dio propria del senso comune. Ciò costituisce l’evidenza di un singolare e significativo rapporto tra la metafisica e i suoi presupposti, lì dove la metafisica diventa ‘teologia naturale’. La ‘filosofia prima’, infatti, già con Aristotele arriva al suo culmine proprio con il discorso su Dio come Causa prima (che è tale, anche se per Aristotele si tratta non de la causa efficiente ma della causa finale). Dopo Aristotele, e utilizzando in parte la sua metafisica, Tommaso d’Aquino è il filosofo che con più rigore e con più convinzione ha offerto delle argomentazioni scientifjche sulla verità di Dio…» (p. 156).
L’attenta tematizzazione del senso comune aiuta a esplorare l’ampio territorio in cui si estrinseca in tutta la sua ricchezza il dominio della logica aletica e a coglierne aspetti e momenti significativi e costitutivi del rapporto teoresi-prassi. Filosofia teoretica e filosofia morale s’intrecciano, si armonizzano e fondono, costituiscono la filosofia. La connessione intima tra l’agire morale e il conoscere sta nella nozione di “senso morale” (p. 107); il senso morale è esperienza; l’esperienza è il «presupposto della filosofia» (p. 24). E l’esperienza morale è il presupposto della filosofia morale, della «riflessione scientifica sui principi morali»: la filosofia morale — prosegue il Livi, citando l’aristotelica Etica nicomachea e il Kant della Fondazione della metafisica dei costumi — «è superflua quando l’uomo già possiede la capacità di vivere secondo i dettami della ragione pratica ( ), e addirittura inutile quando tale capacità non si possiede» (p. 10 ). Dalla presenza e dalla conoscenza degli altri deriva la necessità di rispettare i diritti altrui (p. 113). Il discorso sull’esperienza coglie i valori morali; coglie anche, sul terreno dell’esperienza religiosa, la nozione i Dio. Non si può avere però conoscenza diretta di Dio, che è e resta un mistero. Dio è universalmente il tutto come il fondamento di tutta l’esperienza umana, come l’unica ragione di tutto (p. 129). Il discorso (sull’esperienza) porta sul terreno della storia, della testimonianza, della fede, della rivelazione. La testimonianza è anche fonte di conoscenza scientifica: essa — come insegna Vico, «il primo epistemologo della verità attraverso la storiografia» (p. 174) — è fondamento della conoscenza storica, che, pur nei suoi limiti costitutivi, ha possibilità aletiche. E nasce qui il drammatico — per i cristiani — “problema di Lessing che «consiste nel rendersi Conto, da una parte che la fede cristiana si deve necessariamente basare sulla conoscenza storica, e dall’altra che questa base è facilmente soggetta a dubbio, non essendo esperienza ma accettazione di testimonianze che non danno altra certezza che quella morale» (p. 175). Il problema è stato superato in ambito cristiano da Kierkegaard: e «la critica filosofica contemporanea ha buoni motivi per mantenere unite ‘verità storica’ e ‘verità metastorica’” (p. 175). La conoscenza storica assume in relazione alla Rivelazione un particolare rilievo, da Livi esaminato e chiarito con abbondanza di riferimenti e di dati. Opportuno il riferimento a Giovanni: «Ciò che era fin dal principio ciò che noi abbiamo dito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…) noi lo annunciamo anche a voi…» (p. 178). I fatti sono importanti (Romano Guardini): e il credente «non può non essere anche in un certo modo uno storico» (Romano Penna) (p. 179).
Fedele all’insegnamento autentico dell’Aquinate (si legga il commento all’enciclica Fides et ratio, quaderno 118 della “Grande enciclopedia epistemologica”, 1998). Livi non ripete Tommaso e non ripete i classici: ne esalta le grandi conquiste, li studia con passione, li interroga, è in costante e sereno colloquio con l’uno e con gli altri. Il suo pensiero, elaborazione di una sintesi straordinaria fra tradizione e innovazione , è un capitolo fondamentale della filosofia del nostro tempo e un contributo di notevole spessore teoretico al problema del rapporto filosofia-cristianesimo. Il trattato che si segnala è il risultato di lunghi anni di studio. Il lettore vi riscontra le tracce di una filosofia intera che abbraccia la teoria della conoscenza e della ricerca della verità e accompagna lungo i sentieri di una filosofia di Dio (teologia naturale e filosofi della religione e della fede), dell’antropologia e della sociologia, della cosmologia, di una filosofia della persona e del diritto e della politica, di una filosofia della storia e della salvezza. Una filosofia che da una profonda esigenza interiore inducente all’impegno pedagogico. La ricerca della verità e della sua luce, difficile ed esaltante, coinvolge l’uomo e la comunità umana. Il Livi si sofferma per riflettere e per puntualizzare. E per riprendere il cammino verso prospettive radicate su terreno sicuro e solido.
Ariberto Acerbi –
La ricerca della verità
Recensione di Ariberto Acerbi, in Studi Cattolici, Aprile 2002, pp. 283-286
La ricerca che Antonio Livi da anni conduce sulla nozione epistemica di senso comune nel solco aperto da Garrigou Lagrange, Maritain e Gilson, è giunta con l’ ultima pubblicazione, La ricerca della verità (Dal senso comune alla dialettica) a un ulteriore sviluppo. Si potrebbe dire che, dopo la formulazione teorica della sua tesi in La filosofia del senso comune, la sua conferma logico-dialettica ne Il principio di coerenza, e la sua applicazione in sede di ricerca storica ne Il senso comune tra scetticismo e razionalismoe in La filosofia e la sua storia, la ricerca di Livi sia ora condotta all’applicazione sistematica della tesi alle diverse parti e ai diversi problemi della logica e della filosofia della conoscenza.
Gnoseologia da manuale
Il testo si presenta, infatti, come un manuale di gnoseologia disposto nella sua forma classica: la delineazione del profilo epistemologico e storico della disciplina introduce all’analisi metafisica della conoscenza in generale e nei suoi atti fondamentali (intuizione e giudizio); segue l’analisi delle diverse modalità di conoscenza (esperienza, inferenza, «fede» o conoscenza indiretta nelle sue diverse forme). Nella sezione critica che chiude il lavoro viene, poi, dedicata una particolare attenzione alle varie teorie della verità presenti nella filosofia contemporanea (teoria classica, coerentismo, pragmatismo), ai criteri per il riconoscimento della verità, infine, all’analisi e alla confutazione delle diverse forme dello scetticismo contemporaneo (problematicismo, irrazionalismo, storicismo). Quest’ultima parte sembra quella più nuova e il baricentro del testo, sia per gli espliciti rimandi interni, sia per la tematizzazione del problema dello scetticismo, che è individuato fin dalla Prefazione come una delle difficoltà maggiori della filosofia e della cultura contemporanea.
Mettere a fuoco il «valore-verità»
In questo lavoro l’Autore si propone, dunque, di ridefinire in maniera precisa il significato della nozione di verità, di risolverne le maggiori difficoltà e di mostrarne, in ultimo, il valore esistenziale per il suo legame con la libertà e con la fede. Il problema della verità, infatti, oltre che di fatto imprescindibile, si mostra come intrinsecamente connesso alle dimensioni più profonde dell’esistenza umana. Con parole dello stesso Livi: «Un avviamento allo studio della filosofia della conoscenza come questo che sto presentando mi dà l’opportunità di invitare chi prenderà in mano questo libro a riflettere sul “valore-verità” di tutto ciò che nella sua vita ha importanza e peso reale: non solo riguardo ai beni materiali, dove l’attenzione alla verità è fin troppo praticata […] ma anche e soprattutto riguardo ai beni spirituali, il primo dei quali è il bene della felicità eterna o salvezza; è qui che il baco dello scetticismo, sotto la forma di “fideismo”, rischia di guastare il frutto più saporito della sapienza umana, ossia il riconoscimento della verità della via che porta alla salvezza e la consapevolezza che questa via occorre percorrerla fino in fondo”». Tale attenzione alla concretezza esistenziale non sembra estrinseca allo sviluppo teorico del lavoro; da un lato, perché essa fluisce naturalmente da quello che sembra esserne il nucleo teorico più consistente, il realismo metafisico; d’altro lato, poiché lo sviluppo logico del discorso e lo stile espositivo sono sostenuti da una metodica verifica fenomenologica tramite esempi e tramite l’analisi di espressioni tratte dal linguaggio ordinario. A questo proposito è opportuno notare il particolare riferimento di Livi a Gilson, sia per la definizione più rigorosa del realismo metafisico, sia per la particolare attenzione dedicata all’analisi del linguaggio, qui ulteriormente sviluppata nel confronto con alcuni autori della filosofia analitica come Wittgenstein, Nagel, Putnam e altri. Analogamente agli altri suoi lavori, l’Autore dedica una particolare cura alla definizione formale e storica dei termini tecnici della filosofia, poi raccolti in appendice in un ampio glossario. Le conclusioni sono, infine, tratte in forma di proposizioni, o «princìpi», corredate ciascuna da un breve commento di spiegazione dove il filosofo riassume in maniera schematica i diversi punti del testo.
Razionalismi fuorvianti
Alle origini dello scetticismo si può ritrovare con Livi la pretesa razionalistica di un sapere auto-fondato e completo. In tal senso la reazione scettica è legittima: solo in Dio la verità, come identità di essere e pensiero, raggiunge la sua realizzazione assoluta. Il pensiero umano appare, invece, come un faticoso e contingente passaggio dalla potenza all’atto. La ricerca della verità è, cioè, connotata dal suo intrinseco dinamismo e dalla sua interna composizione, che, se non inficia il valore dei suoi risultati, ne indica, però, il carattere costitutivamente finito. Come già aveva notato Aristotele nella Metafisica con stupefacente precisione, la ricerca della verità per quanto non esauribile non è perciò stesso impossibile. Va rifiutato il postulato razionalistico secondo il quale la verità o appare dispiegata nella sua interna concretezza o, formalmente, non appare affatto. Vi è una realizzazione progressiva del processo della conoscenza dove ogni grado, per quanto elementare (percezione, esperienza, senso comune), gode di una certa autonomia e certezza, e quindi prepara e sostiene attualmente ogni sviluppo successivo della conoscenza.
In tal senso si può notare, sempre con Aristotele, come le difficoltà maggiori circa il riconoscimento della capacità di conoscere la verità sembrano discendere, per un verso, dall’assunzione apriorica di criteri epistemologici univoci, senza la differenziazione dei diversi oggetti, e, conseguentemente, senza la differenziazione dei diversi criteri di verità e di certezza. Occorre affermare, invece, l’esistenza di tipi di esperienza irresolubilmente differenziati, per quanto tra loro in qualche modo connessi (esperienza sensibile, esperienza della soggettività, esperienza morale, religiosa), così come bisogna affermare l’esistenza di una molteplicità di campi epistemologici, dotati ciascuno di propri criteri di verifica (discorso su fatti empirici, su universali metafisici, su rapporti logici, matematici, su fatti e leggi di ordine morale).
Per altro verso, le difficoltà indicate sembrano discendere, ancora, dal disconoscimento dell’intrinseca e irresolubile struttura composita e finita della dimostrazione, che non può generare da sé stessa l’esistenza e le connotazioni fondamentali del suo oggetto, ma deve presupporle.
Il sapere non sorge dal nulla
È esattamente il contrario di quanto si trova invece enunciato nel modello idealistico (dell’autotctisi del pensiero puro) o nel modello kantiano (della mediazione critica del discorso ontologico). In altri termini, la posizione di un problema, come la verifica di una qualsiasi ipotesi, presuppone, in certo modo, l’assunzione dell’esistenza di un oggetto, definito almeno per alcune connotazioni essenziali; e presuppone, ancora, l’esistenza di elementi dati che rendano tale problematizzazione effettivamente consistente. Il sapere non può, dunque, sorgere dal nulla, né potrebbe progredire nella determinazione essenziale del suo oggetto se l’opera di mediazione razionale non presupponesse l’esistenza di tale oggetto o dei dati che in qualche modo vi riconducono.
Con le chiare parole dell’Autore: «La posizione di una domanda […] è indice di qualche conoscenza già acquisita, sia pure problematica e provvisoria: l’ esperienza del problema (desiderio di sapere, ricerca, domanda) fa capire (a noi stessi che riflettiamo) che, il soggetto (cioè noi), proprio perché in possesso di alcuni elementi razionali (in possesso di qualcosa che è già conoscenza), in forza della razionalità già acquisita può e deve cercare maggior razionalità (spiegazioni, dimostrazioni, applicazioni), ossia una ulteriore e migliore conoscenza circa l’essenza di qualcosa o la verifica dell’esistenza di altre cose logicamente connesse».
Un punto importante a questo riguardo, particolarmente sottolineato da Livi, è la definizione della struttura del giudizio, in particolare del giudizio di esistenza, e la fondazione o presupposizione (è questo il termine preferito dall’Autore) degli asserti attributivi negli asserti esistenziali. L’attestazione che qualcosa sia, e nel modo in cui esiste (come ente reale, come ente ideale, come sostanza, come accidente, eccetera) è la condizione fondamentale di ogni sua ulteriore connotazione e, dunque, di ogni altra affermazione che lo riguardi in qualche modo. In termini metafisici: la realtà, e dunque la verità, è significata principalmente dall’atto di essere e dalla relazione dell’ente all’atto di essere. È infatti il diverso possesso dell’essere ciò che determina il carattere ontologico delle diverse realtà. In tal maniera si può distinguere l’essere dal non essere, il reale dall’ideale, la sostanza dall’accidente, l’effettivo dal possibile, il contingente dal necessario. Il valore di verità delle predicazioni dipende, quindi, dal valore ontologico del loro soggetto. L’attingimento intuitivo dell’ente nelle sue modalità fondamentali (ratio entis) e la sua espressione logica nei giudizi esistenziali costituiscono, dunque, i presupposti necessari e irriducibili, e perciò assoluti, di ogni ulteriore caratterizzazione nozionale dei contenuti dell’esperienza.
Conoscenza dell’anima & di Dio
Non vi è così, una corrispondenza immediata e necessaria tra la conoscenza certa dell’esistenza di qualcosa e la conoscenza completa del suo contenuto essenziale. Il caso più emblematico a questo riguardo si può trovare nella conoscenza dell’anima e di Dio. Si può così affermare che il sapere può progredire con sufficiente universalità e certezza pur senza una conoscenza esaustiva dei propri oggetti, e si può così rendere ragione di un dinamismo progressivo della conoscenza, il quale, come ogni dinamismo, presuppone, insieme al suo carattere potenziale, un principio in qualche modo immobile. Ora, il senso comune come insieme organico dei giudizi esistenziali circa i principali oggetti del sapere umano (mondo, io, intersoggettività, moralità come forma specifica dei rapporti umani, Dio) si può definire come il presupposto necessario o trascendentale della conoscenza in generale e il presupposto necessario della conoscenza mediata e riflessa o scientifica su tali oggetti.
Giudizi universali & necessari
In tal senso, i giudizi del senso comune sono giudizi universali e necessari. Non perché il loro oggetto sia in sé necessario e universale, ma poiché ogni conoscenza al loro riguardo si muove nel tacito presupposto della loro validità. L’esistenza del mondo, per esempio, poiché di fatto metafisicamente non necessaria, non può essere dedotta, dal punto di vista della conoscenza umana, da una istanza trascendente il fatto della sua stessa esistenza e delle determinazioni che lo costituiscono immediatamente come tale, quali si possono attingere nell’esperienza. L’essere del mondo, per la sua contingenza, si deve infatti far risalire alla libertà creatrice di Dio, e non è perciò in sé necessario (in senso assoluto). D’altra parte, il carattere necessario di tali giudizi si fonda sul fatto che la percezione intellettiva dell’essere non attinge a un elemento sensibile, accidentale e in tal senso contingente, ma attinge l’ente nel suo carattere fondamentale, nel fondamento della sua consistenza e sussistenza: l’essere, appunto. Ora, tale fatto è precisamente il contenuto di un giudizio che si può dire universale, poiché ogni livello di coscienza (coscienza spontanea o riflessa) lo presuppone allo stesso modo, ossia con lo stesso grado di certezza, seppure non con lo stesso grado di discernimento. Solitamente il procedimento della presupposizione, e la sua prova dialettica nell’autocontraddizione del negatore (o prova elenchica), viene eseguita per attestare la necessità dei princìpi logici, come il principio di non contraddizione. La peculiarità della proposta dell’autore ci sembra, invece, nella distinzione di un ulteriore livello trascendentale di natura esistenziale e non solo formale.
Un altro punto importante per la definizione del significato di senso comune, nel senso epistemico definito da Livi, e per la confutazione dello scetticismo, si trova nella focalizzazione della riflessività immanente all’atto di giudizio. L’asserzione dell’immanenza della verità al pensiero, e dunque l’asserzione cartesiana e kantiana dell’intrascendibilità del pensiero, in certo modo è valida, ma non è sufficiente di per sé per concludere alla tesi del «principio d’immanenza» circa la riflessione o limitazione soggettiva di ogni contenuto della conoscenza e l’autonomia assoluta del pensiero. Da un lato, i dati necessari alla formulazione di un giudizio categorico devono darsi nella loro evidenza, e in tal senso il pensiero presuppone sempre in maniera immediata e attuale i princìpi della sua formulazione. Infatti, un ricorso all’infinito nella fondazione della certezza dei dati inficerebbe la possibilità di risalire dai dati a disposizione del soggetto all’affermazione di un giudizio che attinga in qualche modo la realtà. D’altro lato, il pensiero può riflettere nell’atto del giudizio la propria medesima natura e il fine della conoscenza, che è la conoscenza della realtà. Ed è precisamente in questa capacità e in questa autonomia che si può rinvenire il senso specifico degli atti di conoscenza e la loro relativa libertà.
Autonomia del pensiero
L’atto del pensiero non produce effetti fuori delle stesso soggetto conoscente come, invece, fanno le altre azioni cosiddette « transitive», ma riflette in sé stesso la realtà, misurando in sé stesso e da sé stesso la verità delle proprie ipotesi, seppure in forza dei dati oggettivi a propria disposizione. L’immanenza e l’autonomia del pensiero si possono dunque ritrovare a questo proposito, e in tali limiti. Una volta premesso che la definizione classica di verità come adeguazione del pensiero alla realtà o alla res non pregiudica il diverso contenuto di tale res, che può infatti essere ogni sorta di oggetto, inclusi gli stessi atti del pensiero, Livi osserva: «La mente giudica di avere dati sufficienti per formulare un certo giudizio sulle cose conosciute, ossia valuta la sua effettiva conoscenza delle cose, senza uscire da sé, ma avendo in sé la coscienza che i propri atti conoscitivi sono resi possibili dalla presenza dell’essere delle cose». Tale immediatezza e spontaneità di giudizio, dunque tale libertà del pensiero si realizza in maniera eminente nei giudizi esistenziali di senso comune.
Esperienza di Dio & senso comune
La tesi dell’Autore sul senso comune risulta molto chiara nella sua applicazione alla realtà del mondo, dell’io, dell’esistenza degli altri, della moralità e della libertà. Particolarmente evidente risulta il rilievo della natura specifica dei rapporti umani come rapporti definiti dalla moralità e dalla responsabilità, diversa da tutti gli altri tipi di rapporti reali, come il rapporto tra le cose. Per tal caso, come per gli altri contenuti del senso comune sopra indicati, sembra infatti si possa dire: o si colgono o non si colgono, sono cioè irresolubili nella loro forma e nella loro esistenza. Il caso dell’inclusione di Dio nei dati del senso comune sembra più difficile, anche se Livi indica espressamente come tale contenuto non sia un contenuto elementare dell’esperienza per la immediatezza con il quale è colto, poiché è infatti oggetto di una inferenza, ma per la spontaneità con il quale tale inferenza viene universalmente eseguita. È forse questo il senso di quanto San Tommaso intendeva asserire dicendo: «Hominibus naturaliter inserta est quaedam Dei cognitio». Fabro, per affermare tale medesimo carattere di universalità del problema teologico e la sua trascendenza rispetto ai diversi livelli di coscienza, lo descriveva come « il problema essenziale dell’uomo essenziale».
Notiamo, però, come, di fatto, tale spontaneità e tale certezza di giudizio sul mondo, sulla natura dell’uomo e su Dio possano essere notevolmente offuscate, non solo per l’acquisizione personale di disposizioni morali che confliggono con l’esigenza della verità, ma anche per la diffusione nella cultura, a ogni livello, di concezioni erronee, che vengono poi passivamente recepite. Se l’erroneità di queste può, in certo modo, essere rilevata da chiunque, è solo la filosofia che può correggerle, anche se per compiere ciò essa deve fare chiarezza sui propri presupposti che, per quanto criticamente, non può che mostrare e assumere. Ma questo punto ci sembra chiaro nel discorso di Livi, là dove egli, specie nei lavori precedenti, qualifica la propria ricerca come una filosofia del senso comune.
Maurizio Schoplin –
La ricerca della verità
Recensione di Maurizio Schoplin, in Avvenire, 30 Maggio 2002, p. 22
«Consapevole che anche oggi un qualsiasi progetto filosofico complessivo richiede di essere introdotto e sostenuto da una chiara opzione gnoseologica, Antonio Livi a recentemente dato alle stampe un denso volume intitolato La ricerca della verità (Casa editrice Leonardo da Vinci), che va ad aggiungersi a molti altri scritti ai quali Livi ha affidato la sua teoria del senso comune e un’originale rilettura di San Tommaso, teoria e rilettura che troviamo costruttivamente presenti e operanti nel libro di cui ci stiamo occupando. Livi sa bene che per molte orecchie e menti filosofiche contemporanee la parola ” verità” risulta incomprensibile; ma ritiene altresì che la diffusione dello scetticismo rappresenti un grande pericolo non soltanto per la filosofia ma anche per la libertà e la democrazia, che finirebbero per essere insidiate dal relativismo, dal pragmatismo e dall’utilitarismo».
Patrizia Manganaro –
La ricerca della verità
Recensione di Patrizia Manganaro, in Aquinas, 2002
Antonio Livi, professore ordinario di “Filosofia della conoscenza” nell’Università Lateranense di Roma, si è formato alla scuola tomista del francese Étienne Gilson ampliandone coerentemente le indagini gnoseologiche, sia rispetto alle condizioni di possibilità di una filosofia cristiana, sia nella legittimazione del realismo metafisico. In tal modo, egli ha guadagnato un’originale e sistematica elaborazione teorica del “senso comune” come esperienza originaria nella quale è possibile individuare il criterio assoluto della verità logica; negli ultimi dieci anni, Livi si è proficuamente dedicato allo studio del realismo metafisico, producendo una triade di saggi assai noti agli specialisti del settore: Filosofia del senso comune (1990), Il senso comune tra razionalismo e scetticismo (1992) e infine Il principio di coerenza: senso comune e logica epistemica (1997). Il testo che si sta qui esaminando si presenta come una propedeutica filosofica. L’Autore, infatti, non manca di puntualizzare che “lo scopo specifico di questa “Iniziazione alla filosofia della conoscenza” è di far convergere tutti i discorsi che di solito si fanno in gnoseologia sull’unico problema davvero fondamentale, che è quello della verità” (p. 9). Ciò giustifica l’ampio spazio riservato alla “logica aletica”, cioè veritativa, che per il suo valore fondativo può essere considerata il nucleo portante di questa interessante ricerca. Dopo un’introduzione epistemologica sulla natura e sul metodo della filosofia della conoscenza, che non tralascia di precisarne la struttura sistematica e il profilo storico-concettuale, Livi passa a descrivere i diversi modi del conoscere: l’esperienza, l’inferenza e la testimonianza. Questa parte del libro è utilizzata per mostrare come la ricerca della verità abbia possibilità ed esiti diversi a seconda che a) l’oggetto della conoscenza sia un’evidenza empirica; b) oppure la conclusione di un’inferenza; infine c) qualcosa di non accessibile al soggetto e tuttavia creduto per fede in un testimone.
Per quanto concerne il primo aspetto, e conformemente al realismo metafisico del senso comune, l’esistenza delle cose (res sunt) viene considerata il vero “nucleo dell’esperienza” (p. 89); dunque “l’ens come “primum cognitum” significa la presenza del concreto all’inizio stesso del pensiero: infatti, ciò che è, ciò che ha l’essere, è il concreto, il mondo inteso come l’insieme delle cose.
Del loro esserci (Dasein) ci rendiamo conto fin dall’inizio perchè fin dall’inizio ci sono presenti” (p. 99). Detto altrimenti: il “mondo” non è in alcun modo riducibile alla soggettività.
Ogni conoscenza ulteriore rispetto all’esperienza ha origine nella natura stessa della verità, che essendo dinamica non si accontenta del “già” conosciuto ma tende al “non ancora” conosciuto: tende cioè alla pienezza. Siamo così al secondo punto della questione: l’inferenza (o conoscenza mediata). L’esperienza – il mistero del cosmo, la profondità insondabile dell’autocoscienza, il rapporto dialogico con gli altri, la legge morale e l’intuizione di Dio – suscita nell’intelletto la meraviglia, e la meraviglia muove la ragione alla ricerca delle cause, alla scoperta di ciò che ancora non si è manifestato ma di cui si presuppone l’esistenza, appunto come la causa, la spiegazione di ciò che desta la meraviglia. Ciò significa che, in accordo con quanto afferma la Fides et ratio (cfr § 123), “l’imperfezione della conoscenza immediata richiede lo sforzo di raggiungere qualche conoscenza mediata, passando dalla constatazione che “una cosa è” alla comprensione del “perché è”, ossia passando “dal fenomeno al fondamento”” (p. 139).
Il terzo punto riguarda la conoscenza indiretta o “fede”. A differenza dell’esperienza, la cui verità è fondata sulla conoscenza diretta e immediata, e a differenza del ragionamento, la cui verità è parimenti fondata sulla conoscenza diretta, anche se mediata dall’inferenza, la fede è una conoscenza che il soggetto non acquisisce direttamente, con le sue personali capacità cognitive. La conoscenza che si ottiene per mezzo di una testimonianza è un fenomeno assai complesso e variegato: di fatto, è possibile distinguere almeno tra una fede storica e una fede nella rivelazione divina. Così argomenta Livi: “Si dà il fenomeno della fede allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza di sapere qualcosa circa un oggetto che gli è in evidente, cioè che è (per lui) non-visibile, un “mistero”: infatti, sia quando si tratta di eventi del passato (fede storica) che di aspetti dell’interiorità altrui (fede nella confidenza o confessione di un altro), è sempre di un “mistero” naturale che si tratta, quando non si tratta addirittura di “misteri” soprannaturali (fede nella rivelazione divina)” (p. 161). Dal punto di vista logico, l’atto di fede può essere definito come certezza che un’ipotesi di proposizione sia vera, in quanto corrisponde alla realtà, sebbene tale adaequatio non sia verificabile da parte del soggetto che crede, né con un approccio immediato all’oggetto, né con un approccio mediato dall’inferenza: non verificabile, ma garantita e legittimata da un altr