Descrizione
L’OPERA
Figura esemplare di pastore secondo il Cuore di Cristo che opera per il bene della Chiesa e delle anime, quella di Pietro Fiordelli presentata in questo saggio, pubblicato nel decimo anniversario della sua morte (2004-2014), sembra corrispondere alla visione di vescovo che, secondo Papa Francesco, la Chiesa “vuole avere” (Discorso alla Congregazione per i vescovi, 27 febbraio 2014). Determinato a compiere scelte libere da «[…] condizionamenti di scuderie, consorterie o egemonie», ed annoverabile fra quei vescovi santi che, ha indicato il Pontefice, vivono come «[…] seminatori umili e fiduciosi della verità», Mons. Fiordelli si è adoperato per riportare Prato, di cui è stato pastore per 37 anni, alla vera pratica cristiana. Alimentando e spingendo alla frequenza ai Sacramenti in tutti gli ambienti sociali, si è fatto quindi zelante apostolo e strenuo difensore della vita e della famiglia, a cominciare da un’opera indefessa per la restaurazione della dignità del matrimonio cristiano e la battaglia contro l’aborto. Noncurante delle calunnie e delle accuse mossegli da coloro che avversavano la sua concezione sociale cristiana, Fiordelli si è fatto senza compromessi araldo dei valori morali e familiari, coniando fra l’altro durante il Concilio Vaticano II una delle espressioni che è entrata a far parte di uno dei suoi documenti più importanti ed è comunemente utilizzata oggi nel lessico catechistico, pastorale e teologico, cioè la famiglia “Chiesa domestica” (Lumen Gentium, n. 11).
La prima parte del volume è dedicata ad un inquadramento storico-biografico della vita e dell’attività ecclesiastica di Fiordelli, specie a capo del Comitato Episcopale per la Famiglia della CEI (oggi Commissione Episcopale per la famiglia e la vita), con l’illustrazione dei passaggi più significativi del suo magistero episcopale. La seconda parte, invece, essendo il saggio inserito nella collana “Ermeneutica teologica”, ne esamina con taglio di teologia pastorale l’opera pubblicistica, mostrando come gli approfondimenti e le scelte compiute da questo vescovo furono davvero coraggiose ed, in un contesto religioso e sociale oggi ancora più degenerato di quello nel quale fu chiamato a vivere, esigerebbe nei suoi successori altrettanta fermezza, mettendo al bando comportamenti dettati più dalla paura che dalla virtù della prudenza.
L’AUTORE
Giuseppe Brienza, nato a Napoli nel 1972, vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista, è dottore di ricerca in Scienze Politiche all’Università di Roma “La Sapienza”. Vaticanista in varie testate nazionali ed internazionali, è specializzato in “Questioni di attualità giornalistica sulla Chiesa Cattolica” presso la Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce ed, attualmente, collabora con le riviste il Timone, Studi Cattolici, Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa, Fides Catholica e Ius Ecclesiae. Ha pubblicato finora 13 libri ed una sessantina di saggi scientifici, soprattutto sui temi della storia della famiglia e delle politiche familiari in Italia, della Dottrina sociale cattolica, dei diritti umani e dei rapporti fra Stato e Chiesa.
Casa Editrice –
Famiglia e gender di Giuseppe Brienza
Dal 21 gennaio 2008, da quando cioè Benedetto XVI denunciò per primo l’«emergenza educativa» in Italia e in Occidente, nella Lettera sui problemi dell’educazione che scrisse alla diocesi di Roma, i fenomeni degenerativi nella società hanno avuto purtroppo una forte accellerazione.si è passati, infatti, dall’emergenza al vero e proprio allarme educativo di cui ha parlato, recentemente, l’Osservatorio Internazionale “Card. Van Thuán” sulla Dottrina sociale della Chiesa, presieduto dall’arcivescovo di Trieste mons. Giampaolo Crepaldi, secondo il quale «Il fornte dell’emergenza educativa è ormai diventato un altro, al punto che bisogna ormai parlare di nuova emergenza educativa, o, meglio, di allarme educativo. Il fatto nuovo è stata l’irruzione dell’ideologia del gender nell’educazione, soprattutto nelle scuole» (Dall’emergenza educativa all’allarme educativo, Trieste 15 novembre 2013).
Dopo tale denuncia, la Conferenza Episcopale del Triveneto, nella quale rientra la diocesi di Trieste, ha trattato incisivamente tale problematica nella Nota pastorale Il compito educativo è una missione chiave! (2 febbraio 2014). Mutuando il proprio titolo da una fase pronunciata da Papa Francesco, tale documento affronta «alcune urgenti questioni di carattere antropologico e educativo», che hanno origine dalla progressiva affermazione, anche in Italia, dell’ideologia gender, la quale relativizza il genere sessuale maschio femmina, propagando l’omosessualità.
Il testo che è uscito in occasione della XXXVI Giornata nazionale per la vita, è stato approvato all’unanimità dei Vescovi del Triveneto intendendo offrire, specialmente ai governanti e alle famiglie italiane, una riflessione autorevole su «questioni educative che riguardano aspetti fondamentali e delicatissimi dell’essere umano con numerose e preoccupanti ricadute in ambito culturale, formativo, educativo , quindi, politico della nostra società (triveneta, italiana, europea) e che toccano e coinvolgono in modo diretto la vita delle persone, delle famiglie e della scuola».
All’inizio la Nota, dopo aver evidenziato i molteplici aspetti legati alla difesa della vita e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio nell’attuale contesto, fa riferimento alle questioni emergenti che ne minano le fondamenta, dall’ideologia del gender ai tentativi di traduzione legislativa della lotta alla c. d. omofobia (v. DDL Scalfarotto), da taluni orientamenti materialisti sull’educazione sessuale nelle scuole all’uso dei termini “padre” e “madre” in ambito pubblico. Tutti questi fenomeni, se consolidati, condurranno allo stravolgimento del significato e del valore di “famiglia”. Per questo, i Vescovi del Triveneto, richiamano «la responsabilità e il dovere di richiamare tutti all’importanza di una corretta formazione delle nuove generazioni – a partire da una visione dell’uomo integrale e solidale – affinché possano orientarsi nella vita, discernere il bene dal male, acquisire criteri di giudizio e obiettivi forti attorno ai quali giocare al meglio la propria esistenza».
Il documento della conferenza episcopale presieduta dal Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia, conclude quindi invitando a riconoscere la «ricchezza insostituibile della differenza», iniziando da quella fondamentale, tra “maschile” e “femminile”, e la specificità assoluta della famiglia come unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio».
Richiamandosi alle parole di Papa Francesco – la metà delle citazioni presenti sono tratte dal suo magistero -, la Nota evidenzia la sottovalutazione, da parte di troppi, del «grave pericolo che deriva dal disattendere o stravolgere i fondamentali fatti e principi di natura che riguardano i beni della vita, della famiglia e dell’educazione, confondendo gli elementi obiettivi con quelli soggettivi e veicolati da discutibili concezioni ideologiche della persona che non conducono al vero né dei singoli né della società».
I presuli del Triveneto ribadiscono che non è accettabile «un’ideologia del gender che neghi di fatto il fondamento oggettivo della differenza e complementarietà dei sessi, divenendo anche fonte di confusione sul piano giuridico». E aggiungono, con un invito poco raccolto a nostro avviso da parte di buona parte del mondo cattolico, «a non aver paura e a non nutrire ingiustificati pudori o ritrosie nel continuare a utilizzare, anche nel contesto pubblico, le parole tra le più dolci e vere che ci sia mai dato di poter pronunciare: “padre”, “madre”, “marito”, “moglie”, “famiglia” fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna».
Casa Editrice –
Il vescovo che sfidò il Pci. Con il sostegno di tre Papi
di Rino Camilleri, La nuova bussola quotidiana, 14 novembre 2014
Ero studente in Scienze Politiche all’Università di Pisa negli “anni caldi”. Cioè, proprio nell’occhio del ciclone. I docenti da baroni si erano trasformati in tribuni della plebe e i libri su cui dovevo studiare sembravano editi a Mosca (ce n’era anche uno di nome Carlo Cardia – oggi su tutt’altre posizioni – che propugnava i diritti costituzionali dell’ateismo). Ebbene, quasi tutti questi testi ricordavano con indignazione l’orribile «caso del vescovo di Prato», avvenuto nel 1956, ma mai dimenticato dai livorosi compagni. I succubi democristiani non finivano di vergognarsene sebbene fossero passati quasi vent’anni. Il vescovo in questione era Pietro Fiordelli (1916-2004) e fu pastore di Prato per quasi quarant’anni. Fatto vescovo neanche quarantenne, il 12 agosto 1956, fece pubblicare una sua lettera sul giornale della parrocchia al cui responsabile l’aveva inviata. Riguardava due coniugi che si erano sposati col solo rito civile, in quanto lui era un militante comunista. In base al diritto canonico il vescovo invitava il parroco in questione a considerare i due come pubblici concubini e quindi a escluderli dai sacramenti. Non solo. Anche i rispettivi genitori avevano mancato ai loro doveri cristiani permettendo che i figli contraessero matrimonio al di fuori della Chiesa, perciò non si doveva procedere alla tradizionale benedizione pasquale della loro casa. Sempre codice canonico alla mano, il vescovo rincarò la dose ordinando che la sua lettera fosse letta da tutti i pulpiti della diocesi. Lì per lì non successe niente, anche perché ai coniugi in questione e alle loro famiglie non importava affatto quel che di loro pensavano i preti e il vescovo, il rito nuziale scelto lo dimostrava. Epperò si era negli anni Cinquanta e Prato non era ancora divenuta un feudo rosso. La città era piccola, la gente mormorava. Qualcuno arrivò a recapitare pizzini insultanti alla coppia scomunicata. Ma ciò che fece traboccare il vaso, tanto per cambiare, furono i soldi. Infatti, lo sposato “civile” aveva un negozio che in breve si ritrovò la clientela dimezzata. Possibile che fosse tutta colpa dell’anatema vescovile? Infatti, come abbiamo detto, a quel tempo Prato era un centro di dimensioni relative e non è pensabile che la clientela non sapesse che quello nel tempo libero faceva l’attivista del Pci. Boh. Sia come sia, il Partito prese in pugno la faccenda e convinse gli scomunicati a querelare il vescovo per diffamazione. La cosa finì pure in Parlamento, dove il Pci poteva contare sui reggicoda socialisti, e partì anche una campagna internazionale il cui vero bersaglio era il papa Pio XII, che non molti anni prima aveva avallato la scomunica ai comunisti e a quelli che in ogni modo li aiutavano o condividevano. Del caso di Prato si occupò perfino il famoso settimanale americano Life, creato dal fondatore della rivista Time, Henry Luce, che pubblicò con grande risalto tutte le foto degli implicati nella vicenda pratese. Henri Luce era anche marito di Claire Boothe Luce, prima donna ambasciatrice americana a Roma, fattasi cattolica nel 1946 dopo avere ascoltato un discorso di Pio XII. Il Pontefice sostenne subito il suo vescovo mentre tutti gli occhi erano fissi sul tribunale adito dagli scomunicati. E i giudici, trovandosi vasi di coccio tra vasi di ferro, dopo interminabili discussioni in punta di diritto credettero di risolvere la situazione condannando il vescovo di Prato a un’ammenda simbolica, 40mila lire. Ora, la somma non era poco per quei tempi, ma non era nemmeno molto. Però la condanna, anche se simbolica, sempre condanna era. E il vescovo era stato condannato per aver fatto il suo mestiere di pastore a norma di catechismo e dottrina. La quale vieta ai preti di dare i sacramenti a chi non li vuole; o li vuole, sì, ma alle sue condizioni e non a quelle della Chiesa. Si dirà che il querelante allegava di aver visto rarefarsi la sua clientela dopo la pronuncia vescovile. Tuttavia il bigottismo di certuni non poteva certo essere imputato giudiziariamente al vescovo. Doveva, semmai, il querelante pensarci prima: sapendo come la pensavano i suoi clienti, poteva evitare il gesto inutilmente provocatorio di non sposarsi in chiesa. Oppure, se teneva tanto alle sue idee, essere disposto a pagarne il prezzo. Malgrado ciò il tribunale aveva dato ragione a lui e torto al vescovo. Ma papa Pacelli non era tipo da lasciarsi la mosca sul naso. Non esitò a definire illegale quella sentenza e bacchettò l’inerzia del governo su tutta la vicenda. Sì, perché se si permetteva ai giudici di sindacare quel che i vescovi potevano o non potevano dire nelle materie di loro competenza (riconosciuta dal Concordato) si sarebbe finiti in un regime ideologico laicista (profetico…). Non sazio, il Papa ordinò a tutte le nunziature apostoliche del mondo occidentale di organizzare manifestazioni di solidarietà col vescovo pratese e in segno di protesta arrivò a sospendere il tradizionale ricevimento d’inizio d’anno in onore del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
L’aperta solidarietà al vescovo di Prato arrivò pure, commossa e sentita, da Roncalli (patriarca di Venezia) e Montini (arcivescovo di Milano), futuri Papi, uno Santo e l’altro Beato. Il più sfegatato fu il cardinale di Bologna, Lercaro (poi, però, divenuto progressista), che fece listare a lutto le porte delle chiese della sua Diocesi e suonare le campane a morto ogni cinque minuti per un mese. Monsignor Pietro Fiordelli, nato a Città di Castello (Perugia), morì nella sua Prato. Nel 1986 fu onorato di una lunga visita da parte di Giovanni Paolo II (Santo). La sua vicenda – e il suo insegnamento- tornano d’attualità nel presente momento storico: da qui il libro che Giuseppe Brienza gli ha dedicato, La difesa sociale della famiglia. Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, vescovo di Prato (Casa Editrice Leonardo da Vinci), prefazione di monsignor Luigi Negri e postfazione di Antonio Livi, pp. 162.
Casa Editrice –
La difesa sociale della famiglia
di Samuele Cecotti, in Instaurare, anno 63 (2014), n. 3, pp. 4-5.
La collana Scienze umane e organizzazione sociale della giovane ma benemerita casa editrice fondata e diretta dal filosofo mons. Antonio Livi, si arricchisce d’un un uovo volume: il bel saggio che Giuseppe Brienza dedica al primo Vescovo residenziale di Prato mons. Pietro Fiordelli.
L’Autore non è nuovo a simili prove di valore. Tuttavia merita segnalato il coraggio intellettuale che sorregge questa pubblicazione decisamente pugnace, nelle ragioni offerte e difese con e al seguito di mons. Fiordelli, di fronte all’anomismo morale e giuridico (giuridico in senso classico) che oggi pare dominare vasti campi tanto della cultura laica quanto di quella che si dice cattolica.
Brienza, elogiato dall’arcivescovo di Ferrara mons. Negri, individua in Fiordelli la figura di un grande Vescovo, la cui memoria ha da essere tenuta viva ma non solo. Il pastore della Chiesa di Prato è riconosciuto nella sua esemplarità dunque quale maestro capace di indicare, oggi come ieri, la retta via, la via del diritto naturale e della fedeltà a Cristo nella difesa della vita e della sacralità del matrimonio.
Con precisione e agilità sono ricordati l’impegno di mons. Fiordelli al Concilio – merita però di essere per lo meno menzionata la “primogenitura” di Fiordelli nella definizione, accolta nel testo della costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium (21 novembre 1964), della comunione coniugale sacramentale come Chiesa domestica o piccola Chiesa – e alla CEI dove il suo zelo ne fece il “padre” della pastorale familiare in Italia. Non manca l’attenzione al contributo teologico di Fiordelli in campo ecclesiologico, di Dottrina sociale e di spiritualità (laicale e familiare in particolare).
Ciò che costituisce, però, il cuore del saggio e anche il probabile oggetto di prevedibile polemica, ciò che rende il libro di Brienza non principalmente un esercizio biografico ma un valente contributo alla buona battaglia nel segno dell’apostolato intellettuale, è il Fiordelli del 1956 e, in generale, tutto l’impegno vigoroso del Vescovo di Prato sui temi che oggi si chiamerebbero eticamente sensibili. In breve la lotta, condotta senza risparmio, di mons. Fiordelli in difesa del matrimonio, della famiglia, della vita. A questo aspetto santamente intransigente e paternamente rigoroso di mons. Fiordelli si richiama anche mons. Livi nella postfazione suggerendone l’esemplare attualità in tempo di Sinodo sulla famiglia: sarebbe certamente auspicabile che tutti i Vescovi italiani facessero oggi tesoro di questo esempio, invece di farsi condizionare dalle forti pressioni esercitate da talune autorità ecclesiastiche e da taluni teologi che, in nome del “dialogo” e della “misericordia”, presentano come unica opzione veramente evangelica la resa senza condizioni alla mentalità individualistica, edonistica e secolarizzata di gran parte dei fedeli cattolici.
Innanzi alla diffusa inclinazione a battezzare l’imbattezzabile onde adeguare la Chiesa al secolo sino a determinare ciò che il prof. Danilo Castellano, in riferimento alla relazione di Kasper, ha definito “resa incondizionata al mondo”, proporre l’esemplarità di mons. Fiordelli è salutare richiamo e benefica provocazione.
Il Vescovo Fiordelli seppe leggere la rivoluzione liberal-radicale in atto nell’Italia repubblicana proponendone una valutazione unitaria, dalla secolarizzazione degli anni ’50 sino all’estremo esito dell’aborto come omicidio di Stato. Emerge così una vera teologia della storia o, meglio, una lettura teologica del processo rivoluzionario liberal-radicale. Rileggere oggi L’aborto e la coscienza di Fiordelli, intelligentemente riproposto come appendice nel volume di Brienza, è quanto mai importante per comprendere il passaggio socio-politico di cui viviamo gli esiti e la natura delle sfide etico-giuridiche che oggi ci interpellano. Dicevamo del 1956, l’anno in cui si colloca la vicenda dei “concubini di Prato”, vicenda che portò la stampa internazionale ad occuparsi del Vescovo Fiordelli. I fatti sono narrati con precisione e imparzialità da Brienza nel capitolo dedicato e al quale rimandiamo. In estrema sintesi si trattò del “matrimonio” civile di due battezzati pratesi e del conseguente intervento della Chiesa, intervento di chiarificazione e di correzione alla luce della Dottrina e del Diritto canonico. Mons. Fiordelli, per questo suo pronunciamento, fu denunziato, processato e nel 1958 condannato, poi infine assolto in appello. La vicenda vide il coinvolgimento dei partiti politici (il PCI in particolare guidò l’attacco al vescovo), della stampa e delle gerarchie ecclesiastiche con Pio XII, Siri, Roncalli, Montini stretti attorno a Fiordelli.
Si dirà: storie d’un tempo andato, di un’Italia passata, d’un mondo in bianco e nero, vicenda che fa pensare alla penna di Guareschi al mondo piccolo di don Camillo. In parte è vero ma la vicenda dei “pubblici peccatori e concubini” del ’56 porta con sé un nocciolo di verità perenni non consegnate né consegnabili alle contingenze storiche. La pertinenza all’oggetto di dibattito dell’attuale Sinodo sulla famiglia è addirittura impressionante.
Il Vescovo di Prato, affrontando lo scandalo dei due giovani “sposati” in Comune, ricordò una grande verità patrimonio della Dottrina perenne della Chiesa e cioè che il matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è matrimonio, ma soltanto l’inizio di uno scandaloso concubinato per il semplice motivo che il patto nuziale tra due battezzati è sempre sacramento e se si esclude il sacramento con ciò stesso si esclude anche il patto ovvero si esclude il matrimonio tout court.
La sacramentalità del matrimonio dei battezzati è ontologica. Un battezzato può scegliere di sposarsi o non sposarsi e con chi sposarsi; non può invece scegliere se il suo matrimonio sia o no sacramento: lo è necessariamente se è vero matrimonio. È lo statuto ontologico di figli di Dio, è il carattere ricevuto con il battesimo che fa sacramento ogni vero matrimonio tra battezzati. Non esistono due matrimoni, quello naturale e quello sacramentale, esiste un solo matrimonio, patto indissolubile, monogamico, eterosessuale di diritto naturale elevato da Cristo all’ordine sovrannaturale della grazia, alla dignità di sacramento.
Se dunque non si dà matrimonio tra battezzati che non sia sacramento, il così detto “matrimonio civile” tra battezzati altro non è che la pubblica certificazione di una convivenza more uxorio, ovvero di un concubinato legale. Una tale convivenza costituisce uno stato oggettivo di pubblico e permanente peccato incompatibile con la ricezione dei sacramenti, in primis dell’Eucarestia. E così agì mons. Fiordelli negando i sacramenti ai due pubblici concubini.
Ecco il più evidente aspetto d’attualità della vicenda rispetto al dibattito su stato di peccato 8relativo a situazioni irregolari) ed Eucarestia. Il più evidente ma, a nostro avviso, non il più rilevante.
Le parole di Fiordelli sul casi dei due giovani “sposati civilmente” segnalano, ricordandocela, l’impossibilità dottrinale di ammettere/legittimare tra i battezzati forme di unione (para)coniugale altre dal sacramento del matrimonio. Ovvero tra battezzati può darsi unicamente il matrimonio sacramento, ogni altra convivenza legale more uxorio sarà concubinato, mai vero matrimonio.
Ciò dice l’impossibilità di pensare la fede sovrannaturale dei nubendi quale condizione necessaria per la sacramentalità del matrimonio in quanto si creerebbe un doppio ordine di matrimonio tra battezzati, quello sovrannaturale accanto a quello naturale. Per la validità di quello naturale sarebbe sufficiente intendere i beni naturali del matrimonio, per quello sovrannaturale sarebbe necessaria, invece, una data maturità e saldezza di fede teologale. Secondo questa logica i due concubini di Prato sarebbero veri sposi, benché non sacramentalmente, e il loro vero matrimonio (naturale). Il vescovo Fiordelli ci ricorda che non è e non può essere così perché tra battezzati il patto matrimoniale è sempre sacramento e se si esclude il sacramento si esclude il matrimonio.
Fiordelli non diversamente da Giovanni Paolo II, il quale ci ricorda che la Chiesa non rifiuta la celebrazione delle nozze a chi è bene dispositum, anche se imperfettamente preparato dal punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi secondo la realtà naturale della coniugalità. Non si può infatti configurare, accanto al matrimonio naturale, un altro modello di matrimonio cristiano con specifici requisiti soprannaturali (Giovanni Paolo II, “Discorso ai Prelati Uditori, Officiali e Avvocati del Tribunale della Rota Romana, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario”, 30 gennaio 2003; “Discorso alla Rota Romana”, 27 gennaio 1997). Il sacramento del matrimonio non è altro dal patto coniugale del diritto naturale, è lo stesso patto coniugale (naturale) tra battezzati elevato da Cristo a sacramento. È sacramento non in virtù della fede teologale soggettiva posseduta dai nubendi, non in virtù di una opzione confessionale ma in virtù del battesimo, dello stato oggettivo dei battezzati. Il Magistero del vescovo Pietro Fiordelli, come speriamo aver mostrato, continua ad illuminare e ad indicare la retta via. Confidiamo possa essere fonte d’ispirazione per i Padri sinodali e rinnoviamo l’elogio a Giuseppe Brienza per la meritoria pubblicazione.