Descrizione
ISBN : 88-88926-10-0
(2004, pp. 331, € 25,00)
IL VOLUME
La teologia “naturale” o “filosofica” è quella parte della metafisica che affronta il problema di ciò che sappiamo di Dio con le sole risorse della ragione, a prescindere da un’eventuale autorivelazione di Dio stesso (che, quando sia stata verificata e accettata con la fede, dà luogo alla “teologia soprannaturale”). Anche se oggi il nome di “teologia” viene usato per indicare direttamente il sapere religioso derivante dalla fede nella rivelazione divina, il trattato filosofico su Dio ha tutto il diritto a continuare a chiamarsi “teologia”, nome che si ritrova già nella Metafisica di Aristotele; anche la filosofia pre-cristiana, infatti, ha raggiunto preziose certezze razionali circa il modo di accertare l’esistenza di un fondamento della realtà tutt’intera, ossia della prima causa incausata degli enti della nostra esperienza, di Colui che giustamente è chiamato “il creatore del mondo”. Tali certezze sono la conferma scientifica delle intuizioni del senso comune, dalle quali deriva la religione “naturale”; ma esse sono indispensabili anche al livello della religione soprannaturale (il cristianesimo), perché contengono i presupposti logici per l’accettazione della rivelazione soprannaturale; questa trattazione rappresenta dunque una lucida e convincente confutazione degli errori filosofici che hanno prodotto, anche in campo cattolico, l’odierna tendenza al fideismo, ossia a ritenere che non ci sia alcun sapere su Dio al di fuori della fede, e che pertanto l’alternativa logica alla fede sia l’ateismo.
L’ AUTORE
Mario Pangallo , (Reggio Calabria nel 1962), sacerdote, è professore ordinario di Storia della Filosofia Medievale nella Pontificia Università Gregoriana (Roma) e professore incaricato di Teologia naturale nella Pontificia Università Lateranense (Roma); dal 1999 è accademico ordinario della Pontificia Accademia di san Tommaso d’Aquino. Ha pubblicato: L’essere come atto nel tomismo essenziale di Cornelio Fabro (1987), Habitus e vita morale (1988), Il problema filosofico dell’alterità (1989), Il principio di causalità nella metafisica di S. Tommaso (1991), La libertà di Dio in S. Tommaso e Duns Scoto, (1992), Legge di Dio, sinderesi e coscienza nelle Quaestiones di S. Alberto Magno, (1997), oltre a più di sessanta articoli in diverse riviste scientifiche.
Luigi Iammarrone –
A proposito del saggio Il creatore del mondo di Mario Pangallo
Recensione di Luigi Iammarrone, in Aquinas, 48 (2005), pp. 569-591
Il presente lavoro è un breve trattato di teologia filosofica il cui oggetto è Dio creatore del mondo. L’A., ben noto nel campo filosofico per i suoi importanti lavori in materia, ritiene necessario chiarire che «è possibile fare un discorso propriamente e strettamente filosofico su Dio» e che «la teologia filosofica ha un proprio oggetto specifico ben precisabile e distinto da altre discipline filosofiche che si occupano di Dio» (p. 9).
L’A. considera “filosofico” un discorso su Dio se la tesi tratta di argomentazioni la cui validità non sia deducibile né dalla verità di teorie scientifiche positive né dalla Rivelazione biblica. L’oggetto della teologia filosofica è Dio in quanto conosciuto dall’uomo col lume naturale della ragione e come principio causale totale di tutto ciò che è. Questa conoscenza di Dio, avverte l’A., non dovrebbe assumere un punto di vista “astratto”, al di fuori di ogni contesto esistenziale, ma dovrebbe partire dal dato di fatto, cioè dall’esperienza iniziale dell’umanità il cui oggetto è il “divino” da studiare però nelle strutture universali di significato dell’esperienza religiosa quale espressione propria dello spirito umano (cfr p. 11). A questo punto Pangallo rileva l’estrema fecondità del metodo dell’analisi fenomenologica, le cui strutture di significato a partire dall’aspirazione fondamentale del nostro spirito (cioè dall’irrequietezza del cuore umano) vanno inquadrate nella filosofia dell’interiorità, che simultaneamente implica l’immanenza e la trascendenza di Dio rispetto allo spirito umano. L’applicazione del metodo dell’antropologia trascendentale all’interno della filosofia della religione permette di risolvere le aporie della “dialettica trascendentale” kantiana e di cogliere allo stesso tempo nella “speranza” trascendentale l’anima della religione e del dinamismo dello spirito umano verso Dio, colto come Assoluto personale al di là delle esigenze soggettive di moralità, di bontà e di giustizia (cfr pp. 11-12). Di qui, secondo l’A., l’importanza dell’analisi linguistica che aiuta a penetrare la struttura semantica del linguaggio religioso di modo che la domanda metafisica sull’esistenza di Dio diventa ineludibile. L’A. rileva infine che nel linguaggio religioso il centro prospettico è il “divino”, ma questo significa un insieme di realtà che intanto rientrano in questa categoria in quanto in essa c’è una presenza rinviante in un modo o nell’altro a una Realtà Assoluta, che è Dio stesso (cfr p. 13). L’uomo singolo che si pone il problema di Dio è preceduto dall’universo semantico religioso con al “centro” la parola “Dio”.
Il procedimento razionale che l’A. intende seguire non è puramente “astratto”, ma è sempre in contatto col concreto, con la realtà esistenziale, in quanto la Realtà Assoluta che s’intende dialetticamente trovare, è già in qualche modo “trovata” (cfr p. 15). Dimostrata l’esistenza di questa Realtà, l’A. ne enuclea tutte le prerogative che le competono come Causa trascendente libera. La libertà dell’atto creativo apre la strada alla Rivelazione soprannaturale che porta al mistero dell’Incarnazione del Verbo, massima manifestazione ad extra di Dio come Amore.
L’A. passa nel primo capitolo a trattare delle diverse forme di conoscenza di Dio. Il problema di Dio è esclusivamente propriamente e universalmente umano. Data la non evidenza di Dio, il discorso su di Lui implica un itinerario razionale-speculativo che ne mostri l’esistenza. L’A., in proposito, rifacendosi ad alcune considerazioni di S. Tommaso, rileva che la non evidenza di Dio non riguarda Dio in quanto tale, ma l’evidenza della proposizione: “Dio esiste”. C’è una evidenza per sé e c’è una evidenza relativa al soggetto conoscente. La prima ha luogo quando il predicato è incluso nella nozione del soggetto. Se invece uno non conosce quale sia la natura di uno dei due termini della proposizione o di tutti e due allora la proposizione per lui non sarà evidente. Il termine evidente equivale a “immediatamente noto”. Pertanto c’è una evidenza per sé (quoad se) e un’evidenza relativa al soggetto conoscente (quoad nos). L’A., seguendo S. Tommaso, afferma che la proposizione “Dio esiste” in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato si identifica col soggetto, mentre per noi non è evidente, poiché ignoriamo l’essenza di Dio. L’A. rileva con l’Angelico che noi non abbiamo una conoscenza diretta e immediata di Dio, perché la sua essenza non è l’oggetto proporzionato alla presa del nostro intelletto. L’Angelico, rileva il nostro Autore, riconosce in noi una conoscenza naturale, “innata” e “confusa” di Dio, ma detta conoscenza non è una conoscenza propria, adeguata di Dio in quanto Egli si distingue adeguatamente da tutte le creature. Per questo si richiede un procedimento rigorosamente razionale col quale arriviamo a possedere l’evidenza di una conclusione che è implicata nelle premesse da cui siamo partiti. L’A. pertanto afferma che la dimostrazione o prova razionale di Dio non ha come punto di partenza la natura o essenza di Dio (demonstratio propter quid), ma gli effetti da Lui prodotti (demonstratio quia). Il primo tipo di dimostrazione sfugge alle prese della nostra mente non avendone evidenza immediata, il secondo è invece proporzionato alla nostra mente, poiché rilevando che le creature non hanno in se stesse la loro ragion d’essere, devono averla in un Altro senza del quale non esisterebbero affatto. La conoscenza filosofica e in particolare la metafisica cerca il logos di tutto ciò che è Dio sia dell’essere fisico che del soggetto che indaga e arriva alla conoscenza del supremo Principio o fondamento (cfr p. 28).
A conclusione del primo capitolo l’A. sviluppa alcune considerazioni sul rapporto tra la teologia filosofica e la teologia cristiana con particolare riguardo agli interventi del Magistero Ecclesiastico verificatisi nei due Concili: Vaticano primo e Vaticano secondo.
Nel cap. secondo l’A. tratta delle prove “ontologiche” propugnate da diversi autori per dimostrare l’esistenza di Dio. L’A. premette che ogni prova che conduce ad affermare l’esistenza di Dio “non può non essere metafisica”, cioè deve trascendere la “natura fisica” nello spirito della “seconda navigazione platonica” raggiungendo non un ente fra gli enti, o un “demiurgo”, ma l’Assoluto, cioè l’Essere per essenza che non è un organizzatore, ma è Creatore di tutti gli enti.
L’A. distingue le prove dell’esistenza di Dio in prove ontologiche che dimostrano l’esistenza di Dio partendo dall’idea di Dio che si ha nella mente; in prove cosmologiche fondate sul principio di causalità efficiente; in prove teleologiche fondate sull’ordine naturale; in prove antropologiche che partono dalla realtà interiore dell’uomo e dall’attività spirituale; in prove che partono dall’ordine morale.
A proposito delle prove ontologiche, l’A cita i nomi degli autori principali che le hanno sostenute: Anselmo, A. di Hales, S. Bonaventura, Duns Scoto, Cartesio, Malebranche, Spinoza, Leibniz ed Hegel. L’A. si dilunga e con molta competenza nell’esporre le diverse formulazioni dell’argomento ontologico facendo rilevare però con S. Tommaso che l’argomento non è valido perché non ci è dato di conoscere immediatamente l’essenza di Dio cui spetta di necessità l’esistere. E’ la debolezza del nostro intelletto, che essendo incapace di conoscere Dio in se stesso, non ci permette di cogliere immediatamente il modo secondo cui Egli è in se stesso.
Una breve considerazione sull’argomento ontologico nell’ontologismo chiude il denso capitolo dedicato dall’A. all’argomento.
Nel capitolo terzo l’A. espone il valore delle prove cosmologiche e teologiche relative alla esistenza di Dio. L’A. prende in esame le “cinque vie” esposte da S. Tommaso nella Summa Theologiae (I, q. 2 a. 3) e sostiene che la premessa da cui parte la prima via tomistica riguar da ogni forma di movimento e che può chiamarsi prova delle cause efficienti del movimento.
L’A. ritiene valido per la dimostrazione dell’esistenza di Dio l’itinerario seguito da S. Tommaso nella Summa Theologiae. L’Angelico nelle sue cinque vie segue il metodo a posteriori, prendendo come punto di partenza le realtà della nostra esperienza, che ci sono immediatamente note per risalire a Dio come fondamento assoluto della loro esistenza.
L’esposizione fatta dall’Autore tiene conto delle difficoltà fatte da diversi avversari alle cinque vie e ne mostra la loro inconsistenza. Degne di rilievo sono le sue osservazioni alle difficoltà avanzate da Hume, da Kant, nonché dai positivisti e neo-positivisti contro la validità del principio di causalità sul quale poggiamo le prime tre vie tomistiche. Ottima l’osservazione sul rapporto tra il principio di non contraddizione e il principio di causalità: mentre il primo gode di una estensione e validità universalissima abbracciando l’essere in quanto essere, il secondo vale soltanto per tutti gli enti che non hanno in se stessi la loro ragion d’essere. Il principio di non contraddizione mette in evidenza l’assolutezza dell’essere, la sua inderivabilità dal non essere e quindi la sua autosufficienza assoluta o aseità; il principio di causa riguarda ogni ente dipendente nell’ordine dell’essere, per cui la relazione alla causa rientra nella struttura di ogni ente per partecipazione, quale è l’ente finito in quanto tale, mentre tale relazione non appartiene all’ente in quanto ente. Di qui la necessità di ammettere l’esistenza di un ente non causato. L’A. rileva in particolare il valore della terza via tomistica che parte dall’esistenza del contingente la cui natura è quella di essere indifferente all’essere e al non essere. Un ente del genere non può esistere da sé, altrimenti esisterebbe necessariamente. Se tutta la realtà fosse contingente, cioè indifferente all’essere e al non essere, niente esisterebbe dall’eternità e per l’eternità. Ora di fatto il contingente esiste. Dunque il suo passaggio dal non essere all’essere deve presupporre una Realtà che esiste necessariamente da sé. Tale Realtà è assoluta e trascendente. L’A., tenendo conto del diverso significato che il termine “contingente” ha nel pensiero di S. Tommaso, rileva che in S. Tommaso il contingente in senso stretto è connesso con la generazione e la corruzione dell’ente corporeo (materia e forma) per cui un ente contingente eterno è impossibile. Ma vi sono le sostanze spirituali che non sono composte di materia e forma e quindi dotate di una certa necessità assoluta nell’ordine dell’essenza, ma essendo composte di essenza e di atto di essere, non esistono di necessità assoluta e pertanto la contingenza, la non necessità nell’ordine dell’essere, compete anche a loro. Altre vie dal contingente al Necessario quali riscontriamo nella storia della filosofia sono riconducibili a quelle classiche di S. Agostino e di S. Tommaso. La terza via mette in evidenza la dipendenza radicale del contingente dal Necessario. L’A. prende in considerazione la terza via anche nel pensiero di Kant e di Hegel rilevando che la prova “a contingentia mundi” non è riducibile alla prova ontologica come voleva Kant, mentre è valida secondo Hegel, ma a condizione che si assuma il punto di vista della Ragione, la quale considera il finito/contingente non come qualcosa di aggiuntivo/vero, ma come il negarsi dell’Infinito (Necessario), per cui solo Dio è mediante la mediazione di Sé con Sé. Kant aveva affermato che si deve distruggere la ragione per salvare la fede, mentre Hegel sosteneva che la fede non può prescindere dalla ragione e che non si può distruggere il sapere per far posto alla fede. Naturalmente Hegel parla di una fede naturale, ma questa scompare quando la ragione se ne appropria.
La riflessione sulla quarta via di S. Tommaso viene svolta dall’A. con molta ponderazione e giustamente viene da lui considerata come la prova metafisica fondamentale del procedimento tomistico a Dio. Dopo aver esposto l’origine della quarta via secondo il pensiero platonico, l’A. espone altresì il pensiero aristotelico sulla stessa via, rilevando però che lo Stagirita, pur non accettando il procedimento platonico, perviene con chiarezza alla tesi che la molteplicità dei gradi di perfezione rimanda alla Perfezione suprema. S. Tommaso si muove nell’ambito della metafisica della partecipazione per cui ogni ente esiste per partecipazione dell’Essere per essenza. L’Essere sussistente è la Perfezione di tutte le perfezioni, è la Perfezione separata che esiste da sé, in sé e per sé ed è causa esemplare, efficiente e finale di tutti i gradi di perfezione nell’ordine dell’essere.
L’A. termina la sua esposizione delle “cinque vie” portando la sua riflessione sulla via che dall’ordine e dal finalismo conduce al supremo Ordinatore e fine ultimo di tutta la realtà. Penetranti sono le sue considerazioni sul principio di finalità la cui validità oggettiva essendo pienamente giustificata è in grado di raggiungere l’obbiettivo della prova. La prova tomistica messa dall’A. a confronto in modo particolare con il pensiero di Hume e di Kant, conserva sempre il suo valore ai fini delle prove dell’esistenza di Dio.
Infine l’A. prende in considerazione anche le prove antropologiche, quelle deontologiche e altre che conducono validamente a Dio. L’A. nella conclusione del suo discorso afferma che “vi sono molti altri punti di partenza per arrivare a Dio”. Egli ne ha proposto soltanto alcune ma ritiene tutti in grado di raggiungere Dio quale termine del loro itinerario speculativo.
Nel capitolo quinto l’A. affronta l’argomento che ha come oggetto il linguaggio su Dio. Nella prima parte del suo discorso egli ha risposto alla domanda: “quid sit Deus”. La risposta l’A. la trova nella questione dell’analogia secondo la quale c’è una somiglianza tra Dio e la cosa creata posta in essere dall’attività creatrice divina, che chiama all’esistenza la realtà prodotta secondo una certa somiglianza con l’essere divino. Questa somiglianza universalissima tra Dio e gli enti creati è il fondamento metafisico del linguaggio su Dio per analogia. La somiglianza non è né generica né specifica ma soltanto “analogica”, in quanto tra Dio e le creature vi sono degli aspetti in qualche modo comuni.
L’A. a questo punto rigetta sia il panteismo come conseguenza dell’univocità sia l’equivocità, come conseguenza dell’agnosticismo. A proposito dell’univocità dell’ente e la trascendenza di Dio, l’A. si limita ad esporre il pensiero di Giovanni Duns Scoto, il quale ritiene di poter salvaguardare la trascendenza divina con l’univocità dei nomi divini rimandando il lettore a quanto egli ha esposto altrove sull’argomento (cfr La libertà di Dio in S. Tommaso e in Duns Scoto, Roma 1992, pp. 28-45). In linea con la posizione di S. Tommaso egli ritiene di poter trovare una giustificazione del linguaggio teologico nella predicazione analogica dell’essere e delle perfezioni dell’essere che ha il fondamento nella analogia del concetto di ente. L’A. rileva che a proposito dell’analogia del concetto di ente lo stesso Tommaso non è chiarissimo, il quale raramente usa il termine “analogia”, mentre fa ricorso a diversi altri termini. Egli ritiene adeguata la suddivisione proposta dal Suarez dell’analogia in analogia di attribuzione intrinseca, analogia di attribuzione estrinseca, analogia di proporzionalità propria e analogia di proporzionalità metaforica. A suo giudizio, la sintesi e il superamento del platonismo e dell’aristotelismo avviene anche per la dottrina dell’analogia grazie all’originalità della nozione tomista di “essere” (esse).
Nel pensiero aristotelico non abbiamo l’essere prodotto dal nulla, cioè il concetto di creazione, per cui si rimane nell’univocità della sostanza singolare, la quale, essendo l’unico fondamento di ogni predicazione analogica, è possibile solo secondo una proporzionalità orizzontale secondo il modello matematico (identità di rapporti).
L’A. ritiene che il vero principio di risoluzione nel fondamento dell’analogia deve risiedere nella reductio ad unum operata da Tommaso in base all’analogia di attribuzione che implica una metafisica creazionistica. Ciò ci permette di parlare del primato dell’analogia di attribuzione intrinseca rispetto all’analogia di proporzionalità. Codesta analogia, intesa come rapporto tra due proporzioni, esprime la somiglianza e dissomiglianza delle cose nell’ambito predicamentale. “La proporzionalità entra in metafisica per esprimere la somiglianza di struttura tra finito e Infinito senza però esplicitare la dipendenza causale del primo rispetto al secondo” (p. 215). In tal modo si stabilisce una proporzionalità del rapporto tra l’essere e la sua attualità nelle creature. “Essere per essenza: Atto puro – ente per partecipazione: atto d’essere partecipato” (ivi). La proporzionalità mette in rilievo che in Dio, l’Essere non è ricevuto, essendo l’Essere sussistente, mentre nelle creature l’essere è ricevuto nell’essenza finita, la quale è da esse sostentata.
Ora se consideriamo l’analogia di proporzionalità nell’ordine trascendentale, essa esprime somiglianza e dissomiglianza tra Dio e la creatura. La somiglianza però si fonda sulla dipendenza causale della creatura dal Creatore, della realtà finita rispetto all’Infinito. Sia l’analogia di proporzionalità che di attribuzione hanno il loro fondamento ontologico nella partecipazione trascendentale, la quale dice non solo somiglianza ma anche dipendenza causale. La somiglianza della creatura col Creatore si fonda sulla dipendenza della prima dal Secondo. La causalità è causa della somiglianza della creatura col Creatore in base al principio: omne agens agit simile sibi.
L’A., riepilogando il suo pensiero sull’argomento, lo condensa in queste parole: “nell’ordine conoscitivo il soggetto risale dall’analogia di proporzionalità all’analogia di attribuzione, mentre nell’ordine ontologico, è il contrario” (p. 216). L’analogia di attribuzione è intrinseca e comporta per il nostro A. due elementi importanti: la composizione reale di essenza e atto di essere e non solo il rapporto estrinseco della creatura al Creatore (p. 217). La composizione reale tra essenza e atto di essere esige la dipendenza reale della creatura dal Creatore. Codesta dipendenza non è qualche cosa di puramente estrinseco, poiché la causalità divina raggiunge la creatura nell’interno più profondo del suo essere. L’A. è del parere che “la dottrina tomistica dell’analogia si può considerare il momento “conclusivo” dello sviluppo della metafisica dell’Esse subsistens, ovvero della teologia filosofica, anche se, sotto l’aspetto metodologico, ne è premessa fondamentale” (p. 217). La dottrina dell’analogia di S. Tommaso è in intimo rapporto con la dottrina metafisica della partecipazione: l’actus essendi è una partecipazione dell’Ipsum Esse subsistens ed implica la dipendenza reale del primo dal secondo. A questo punto l’A. rileva l’originalità di Tommaso rispetto ad Aristotele, il quale non conobbe l’analogia di attribuzione intrinseca tra le realtà finite e Dio perché privo del concetto di creazione.
L’A. prende in considerazione le obiezioni di due studiosi di Aristotele: Enrico Berti e Anthony Kenny, i quali pensano che S. Tommaso identificando Dio con l’Ipsum Esse subsistens correrebbe il rischio di ricadere nell’Essere di Parmenide e di non prendere sul serio il principio aristotelico: “l’ente non è un genere” (p. 220). L’A. risponde alle obiezioni osservando che l’Ipsum Esse subsistens tomistico non è affatto l’Essere di Parmenide, né un’Idea in senso platonico quasi fosse l’essenza di tutto ciò che è. L’Ipsum Esse subsistens è identità perfetta di essenza e di atto di essere; è l’Essere nella pienezza senza limiti della perfezione dell’essere per cui Dio è la Realtà non astratta, ma personale, individuale al massimo grado che contiene tutta la ricchezza della perfezione dell’essere ed è fondamento e causa di tutti gli enti che esistono distintamente da Lui. Dio non è una specie di essere comune quasi forma universale che costituisce intrinsecamente tutti gli enti nella loro entità, ma è loro causa esemplare, efficiente e finale. Dio fa esistere come causa prima tutti gli enti ma non è loro principio intrinseco essenziale, costitutivo. A motivo della sua infinita perfezione nell’ordine dell’essere, l’Essere divino è incomunicabile ad extra e pertanto non può essere principio intrinseco costitutivo di tutto ciò che è distinto da lui (p. 221). Parimenti infondate le critiche avanzate da E. Lévinas, Jean-Lue Marion ed altri contro la nozione di Essere attribuita a Dio. Dio sarebbe “oltre l’essere”. La risposta dell’A. poggia sull’approfondimento della nozione di Esse subsistens. L’Essere divino è una sostanza del tutto semplice nel possesso della sussistenza assoluta per cui essere principio fondativo del finito non implica una rinuncia alla sua sussistenza e perfetta distinzione personale da esso. La causalità divina è trascendente e immanente nello stesso tempo rispetto al finito. E’ trascendente in quanto creando conserva la sua perfetta distinzione dal mondo. Dio creando dà soltanto senza ricevere alcunché dal mondo. E’ immanente nel mondo perché col suo stesso essere fa essere il finito, il quale è nell’intimo dell’essere divino come sua causa immediata secondo come si esprime profondamente l’Apostolo. “In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (A.17, p. 29). Si tratta di onnipresenza causale dovuta alla infinita perfezione dell’essere divino, che per questo motivo è trascendente (l’Infinito non può identificarsi col finito) e nello stesso tempo immanente, cioè presente immediatamente nell’essere finito cui comunica l’essere creaturale.
La presenza causale di Dio nel creato non implica la sua identificazione col creato: la causa non può identificarsi col suo effetto. La “ipseità” dell’esse divinum”, che è posta al di là della Presenza ma nello stesso atto di ogni atto e pertanto è la Realtà propria di ciò che è presente” (p. 222). Il principio neoplatonizzante: “tutto in tutti” è inaccettabile, poiché è di sapore prettamente panteistico: esso non può dissolvere il finito nell’Infinito. L’A. conclude il suo discorso sull’argomento affermando che l’espressione “Ipsum Esse Subsistens” salvaguarda tanto l’assoluta trascendenza di Dio quanto la Sua onnipresenza nel mondo, come si conviene alla Causa Prima che è tutta presente in ogni parte dell’edificio ontologico, ma non coincide con l’edificio stesso (cfr p. 223). La causalità divina è principio fondamentale di tutto l’essere finito secondo i gradi di perfezione, il cui ordine è a fondamento dell’analogia metafisica.
L’A. continua il suo discorso conclusivo sull’analogia nel linguaggio teologico avvalendosi dei contributi della fenomenologia del linguaggio religioso, dell’ontologia heideggeriana del linguaggio e dell’analitica linguistica. L’A. dopo aver esposto dettagliatamente i contributi del pensiero moderno sull’argomento sottolinea i seguenti punti:
1) Il linguaggio su Dio deve esprimere sia l’assoluta trascendenza dell’Essere (e del Nome) di Dio sia la Sua reale e intima Presenza nel mondo e nell’uomo.
2) A tal fine, la distinzione tra Essenza divina Attributi divini e Operazioni divine è necessaria, anche se va capita nell’ambito di una distinzione di ragione e non “reale”, nel senso propriamente metafisico dell’espressione “distinctio realis”.
3) Chiarita la distinzione tra Dio e i Suoi attributi, occorre concepire un modo di parlare di Dio che consenta di attribuirgli dei Nomi con un significato né univoco, né equivoco, ma analogico.
4) L’uso dell’analogia nel linguaggio teologico è fondato in una metafisica dell’essere che accetti l’analogia “entis” e il principio di causalità.
5) Se il linguaggio su Dio non ha la pretesa di farci conoscere l’essenza di Dio, che è di per sé ineffabile, intende però esprimere ciò che Dio manifesta di Sé nella creazione (pp. 243-44).
Nel capitolo sesto l’A. affronta il tema di Dio Creatore. Ciò che si può conoscere di Dio è desunto dalla conoscenza di realtà finite e dell’essere umano in particolare. Le realtà finite sono la via attraverso la quale si conoscono le perfezioni di Dio. In quale rapporto il mondo sta con Dio? Le cinque vie ci fanno conoscere la trascendenza della Realtà assoluta e la dipendenza causale del mondo da Dio. Fino a che punto si spinge questa dipendenza?
L’A. intende dimostrare che la dipendenza del mondo da Dio è totale, cioè per via di creazione. L’A. fa precedere la risposta al quesito parlando degli attributi divini entitativi e della semplicità divina. Questa esclude ogni forma di composizione reale sia di natura ilemorfica sia nella linea dell’ente di essenza e atto di essere sia nella linea della sostanza e dell’accidente sia la composizione dell’essere divino con l’essere creato. La semplicità divina coincide con la nozione della trascendenza divina. L’A. si ferma a considerare vari attributi divini quali l’immutabilità, l’eternità, l’infinità nelle sua varie accezioni escludendo l’infinità materiale o estensione e ammettendo l’infinità formale che significa perfezione. Inoltre considera in particolare la conoscenza e la volontà di Dio che hanno come oggetto primario Dio stesso considerando nella sua essenza e le creature come oggetto secondario. L’uno e l’altro attributo sono perfettissimi: il conoscere divino è semplice, eterno, immutabile puramente attuale; il volere divino è semplice, eterno, immutabile, sempre attuale ma libero rispetto alle creature (cfr pp. 215-247). L’A. esclude da Dio ogni imperfezione e prova l’unicità del suo essere.
Fatte queste premesse, l’A. affronta la questione di Dio creatore. L’attributo “creatore” indubbiamente compete a Dio ma non è deducibile a priori dalla nozione di perfettissimo. L’onnipotenza è direttamente deducibile dall’Atto puro. Dio può fare tutto quello che vuole, ma il potere creativo è conoscibile solo attraverso le cose da Lui poste in essere. La nozione di creazione suppone l’esistenza di realtà poste da Dio in essere, le quali non avendo in se stesse la propria ragion d’essere rimandano a Dio come loro Creatore. L’atto creativo non è necessario, ma libero non avendo le creature alcun diritto ad esistere. Del fatto però che libertà e necessità in Dio realmente coincidono non significano predeterminazione onnicomprensiva di ogni sua possibile scelta, perché ciò finirebbe con l’identificare Dio con la totalità del reale.
L’A. non si nasconde la difficoltà di comprendere tutto questo discorso in modo adeguato, tuttavia conclude che Dio è Creatore per un dato di fatto conoscibile a posteriori cioè attraverso gli effetti. Passa quindi alla spiegazione dei termini creare, creatore e creatura.
L’A. adotta da S. Tommaso la definizione della creazione intesa come “l’emanazione di tutto l’essere dalla Causa prima e universale”. Se questa è la definizione della creazione ne segue che la realtà creata non può essere pensata come una entità presupposta da cui Dio estrarrebbe o farebbe derivare l’essere finito. L’emanazione di tutto l’essere da Dio pertanto parte non da un presupposto realmente esistente, ma dal nulla cioè dal nulla in senso assoluto della cosa che incomincia ad essere. Dio non è un trasformatore o un organizzatore del Cosmo a somiglianza del demiurgo platonico ma Colui che ha tratto l’essere dal nulla. Di qui la definizione della creazione: “productio rei ex nichilo sui et subiecti”. Nella creazione non solo è prodotta in essere la modificazione della cosa, come avviene in tutte le azioni delle creature, ma viene prodotto anche il soggetto, il sostrato di cui la cosa risulta composta. La realtà creata viene prodotta in essere secondo tutta la sua entità per cui la sua produzione non presuppone nessun elemento di cui la cosa consta. La creazione è produzione della cosa dal nulla assoluto. Di qui l’altra definizione nel modo più alto, la produzione dell’ente in quanto ente che designa l’oggetto formale e il termine dell’atto creativo. Con la creazione la cosa prodotta viene prodotta in quanto ente, cioè totalmente, mentre prima era nulla assoluto. Il nulla designa l’assenza della causa materiale o soggetto da cui viene estratta la realtà creata.. Quindi nella definizione della creazione non viene affatto affermata l’esistenza del “nulla” prima della totalità del reale.
L’A. a questo punto rigetta la tesi delle filosofie neoparmenidee, neoeleatiche che accusano il concetto cristiano di creazione che cade in contraddizione, perché ammetterebbe l’essere del non essere (E. Severino). Queste filosofie non hanno capito il significato della creazione dal nulla intendendo il nulla come principio costitutivo della creatura quasi che la creatura fosse un misto di essere e nulla.
L’A. ritiene che questa interpretazione sia di derivazione hegeliana di cui da un’ampia esposizione critica. Nella prospettiva hegeliana il”nulla” viene presentato come una “forza” che giunge a capovolgere la formula creazionistica secondo cui “ogni creatura senza Dio è un puro nulla”. A questa formula Hegel ne aggiunge un’altra: “Dio senza il mondo è nulla”. Separatamente presi Dio e la creatura sono una vuota entità astratta per cui l’atto creatore diventa un autoporsi dell’Atto in modo che gli enti finiti e i loro rapporti sono sue determinazioni e non già suoi effetti oggettivi e reali. L’A. a questa concezione panteistica oppone la concezione tomistica del rapporto metafisico tra essere e nulla che si precisa su una linea ben differente da quella del sistema hegeliano. Il nulla chiarifica la finitezza dell’ente non come se fosse un elemento reale componente l’ente, ma in quanto riporta il limite dell’ente al suo fondamento, cioè all’Essere che ha dato l’essere a ciò che non è. Di qui (fra i quali c’è S. Bonaventura) sostengono la tesi contraria. L’A. dichiara la propria adesione alla tesi di S. Tommaso secondo la quale non ripugna la creazione del mondo ab aeterno.
Un argomento molto importante al riguardo è quello della libertà dell’atto creativo. Pangallo afferma che in Dio l’Essere, il Conoscere e il Volere si identificano realmente per cui Dio col suo stesso essere si conosce e si ama. Poiché l’oggetto della volontà è il bene, l’oggetto della volontà divina sarà primariamente l’Essere stesso di Dio infinitamente perfetto nel quale la sua volontà trova il suo perfetto e adeguato appagamento, la sua felicità infinita. Essendo l’Essere necessario, Dio non può non amarsi necessariamente avendo in esso la sua perfetta realizzazione. La necessità dell’amore in Dio si identifica con la necessità del suo Essere. La stessa cosa non si può dire del rapporto Dio-mondo, perché il mondo, essendo una partecipazione finita dell’Essere divino, non può essere l’oggetto adeguato e infinitamente saziativo della volontà divina. Di qui la libertà dell’atto creativo. Dio, essendo l’infinito Essere e Bene, non può amare necessariamente il mondo da volere di necessità la sua esistenza. Dio può essere senza il mondo, il che è un capovolgimento dell’affermazione hegeliana secondo la quale “Dio senza il mondo è nulla”. Dio esiste di necessità assoluta, metafisica; il mondo, se esiste, esiste di necessità ipotetica. Messo in chiaro questa affermazione d’importanza fondamentale, l’A. continua il suo discorso parlando della conservazione e del governo del mondo da parte di Dio. La conservazione è la creazione continuata per mezzo della quale sussiste l’essere tratto dal nulla. Il termine “conservazione” significa che la creatura per esistere ha bisogno del continuo influsso dell’atto creativo. La creatura lungo tutto il suo esistere dipende necessariamente da Dio.
Intimamente connesso col tema della creazione è quello della Provvidenza con la quale Dio governa il mondo da lui creato. La Provvidenza, afferma l’A., è la predisposizione delle cose al loro fine e presenta due aspetti: a) il piano divino rispetto alle cose che devono essere dirette al loro fine; b) il governo divino dell’universo in cui ogni ente ha un ruolo nella totalità dell’universo, contribuendo a determinare l’armonia della creazione.
La Provvidenza di Dio è giusta e misericordiosa. A questo punto l’A. affronta il problema del caso che sembra creare difficoltà alla Provvidenza divina. La soluzione che egli dà alla difficoltà è chiara e profonda. Ammessa l’esistenza del disordine e del caso che noi capiamo appunto perché esiste l’ordine ed esiste il finalismo delle cose, l’A. afferma che il caso è il combinarsi improprio di due o più azioni o di due o più fenomeni, ciascuno dei quali ha una propria finalità ed è collocato in un ordine; l’incrociarsi di queste azioni o di questi fenomeni, come tale, invece, non ha per se stesso una propria finalità ed è dunque disordine. Ora sia il disordine che il caso rientrano in un ordine superiore che è il piano della divina Provvidenza cui tutto è sottoposto; ciò non toglie però che un evento, in se stesso considerato, possa essere casuale. In una prospettiva religiosa il credente deve saper scorgere anche nel caso la presenza provvidenziale di Dio per riportare ad un significato più alto, ciò che in se stesso, sotto l’aspetto del fine, non ha alcun significato (p. 291).
L’A. trattando della Provvidenza parla del piano da essa predisposto che prevede sia l’agire naturale delle creature sia le azioni libere dell’uomo. Dio nel governo del mondo rispetta l’agire libero dell’uomo, il cui esercizio nel bene contribuisce alla perfezione dell’universo. Non solo la Provvidenza divina è compatibile con il libero arbitrio, ma il libero arbitrio è contenuto nell’azione di Dio provvidente per cui ogni atto libero dell’uomo è sempre soggetto alla divina provvidenza, pur essendo libero. Precisare in che modo possano coesistere mozione divina e libero arbitrio è un problema arduo misterioso come appare dai diversi sistemi escogitati dalle varie scuole teologiche in campo cattolico ed extra cattolico. L’A. rifacendosi al pensiero dell’Aquinate, rileva che Dio opera nelle creature come causa finale, come causa efficiente, e come causa che applica l’agente all’azione nonché come causa principale in quanto è causa dell’azione dello strumento. La causalità divina essendo creatrice e conservatrice è universale in quanto Dio opera in ogni ente creato; senza questa mozione nessun ente creato potrebbe agire.
La casualità divina è di ordine trascendentale, mentre la causalità creata è di ordine predicamentale. L’Angelico, nota l’A., è ben lontano da ogni forma di occasionalismo, poiché rivendica ad ogni creatura la propria capacità di agire secondo la sua forma propria per cui ogni creatura è causa dei suoi effetti naturali: il fuoco è causa dell’azione di bruciare senza escludere l’agire causale divino che attualizza la virtù naturale del fuoco. Tutto questo è una premessa al discorso che conduce l’A. a parlare della prescienza e predestinazione delle azioni libere poste dall’uomo in relazione al conseguimento del suo fine ultimo. A proposito di ciò l’A. riferisce l’obiezione che si suole fare contro la conoscenza necessaria che Dio avrebbe delle azioni necessarie delle creature prive di ragione e delle azioni necessarie e libere delle creature razionali, la quale impedirebbe la conoscenza delle azioni libere delle creature razionali. Se Dio “prevede” necessariamente ciò che avverrà, non c’è più possibilità di azioni libere per la creatura razionale. L’A. risponde alla obiezione rilevando che è vero che tutto quello che accadrà nel tempo Dio lo conosce necessariamente, ma questo non comporta che la necessità della conoscenza divina sia negatrice delle azioni libere compiute dall’uomo, poiché Dio conosce necessariamente sia le azioni necessarie sia quelle libere. La necessità della conoscenza però non distrugge ma rispetta il carattere libero delle azioni proprie dell’uomo. Ciò che è libero Dio lo conosce come libero; ciò che è necessario lo conosce come necessario. Il problema rimane: come Dio conosce le azioni libere dell’uomo? Qua’è il rapporto tra la grazia, cioè la mozione divina e il libero arbitrio? L’A. osserva che nel campo teologico vi sono diversi sistemi teologici che hanno tentato di dare una risposta alla domanda, ma nessuno, nonostante alcuni aspetti positivi propri di ciascun sistema, è in grado di dare una risposta risolutiva, poiché ci sfugge il modo di agire proprio di Dio nei rapporti con le sue creature razionali fatte a sua immagine e somiglianza. Quello che è certo, osserva il nostro A., è che la salvezza è opera di Dio, mentre la dannazione è tutta opera dell’uomo che con la sua libertà respinge la grazia divina salvante. Rimane sempre vero quello che affermava Prospero d’Aquitania: “Che ci si salvi è dono di Colui che salva; che ci si danni è responsabilità di coloro che si dannano”. S. Agostino si era espresso così: “Colui che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te”.
Il problema della predestinazione, osserva l’A., è eminentemente teologico e pertanto esula dal campo filosofico, il quale però conserva un legame col problema teologico della predestinazione a motivo del rapporto tra prescienza divina e libero arbitrio. La predestinazione non è dovuta, non è ex debito, ma è gratuita, ex gratia. La riprovazione divina è il prendere atto del rifiuto ostinato e definitivo dell’amore salvifico da parte di alcuni con la conseguente dannazione, cioè stato di definitivo allontanamento da Dio. E’ da escludere, afferma l’A., una predestinazione alla “dannazione”.
Con la trattazione sul problema del male si conclude l’opera del nostro A. Questo problema ha sempre costituito una grande obiezione contro l’esistenza di Dio provvidente. L’A. partendo dalla definizione di S. Agostino “il male è privazione di un bene” cui aggiunge l’importante precisazione di S. Tommaso “il male è privazione di un bene dovuto”, afferma che il male è deficienza di essere o di perfezione e pertanto è non-essere. Il non essere, essendo causa di tante deficienze e imperfezioni che provocano dolori, sofferenze e morte, perché viene da Dio permesso nella sua creazione? Prima di rispondere alla difficoltà l’A., seguendo l’Angelico, suddivide il male in male della colpa, in male della pena e in male naturale, ma non condivide la tesi leibniziana che identifica la finitezza nella creatura col male. Né accetta l’ottimismo leibniziano né il dualismo manicheo. Il male in quanto è defettibilità degli enti e della loro attività è reale ma non quanto dice alcunché di positivo, ma in quanto è privazione del bene dovuta agli enti defettibili. Dio permette il male soprattutto in vista di un bene più grande (in questo l’ottimismo ha ragione); ma Egli permette il male come necessaria conseguenza dell’inevitabile limitatezza dell’essere creato (male fisico) e della limitatezza della libertà creata (male morale).
La causa del male: Dio è assolutamente innocente cioè non responsabile del male morale né è autore del male fisico. Dio non vuole né il male morale né il male fisico se non indirettamente, permettendo il primo e causando indirettamente il secondo, in quanto Causa dell’essere limitato delle creature. Se Dio però permette il male, ciò lo fa perché sa trarre il bene anche dal male. Tutto questo lo possiamo apprendere dalla Rivelazione non già dalla pura ragione. L’A. termina la sua opera facendo un confronto tra la teologia filosofica e la teologia soprannaturale, culmine questa di tutto il sapere umano.
Il lavoro del Prof. Pangallo merita tutta la nostra stima e il nostro apprezzamento avendo raggiunto il fine che si era prefisso. L’opera del Prof. Pangallo è un autentico trattato di teologia filosofica, poiché contiene tutti gli elementi necessari che dimostrano con argomentazioni apodittiche l’esistenza di Dio Creatore provvidente dell’universo. Primo regio dell’opera è l’aver situato il problema di Dio non in un campo astratto ma in campo concreto. Il problema di Dio va situato nell’orizzonte del linguaggio, che è illimitato e la cui trascendenza è evidente rispetto al contingente materiale, tuttavia esso non ha in se stesso la ragione sufficiente della sua illimitatezza. Il linguaggio, in effetti essendo opera dell’umano intelletto non può avere in esso la sua trascendenza o illimitatezza, ma può averla solo nell’essere, che opponendosi radicalmente al non-essere, comporta e significa assolutezza. L’essere svolge la funzione di centro trascendente e di fondamento del linguaggio. Il linguaggio religioso che ha come centro il “divino”, ha valore se è interessato e permeato da una presenza che rinvia a una Realtà Assoluta. Giustamente l’A. riconosce nella parola “Dio”, il centro semantico che realizza all’infinito l’orizzonte illimitato del linguaggio. In una parola, l’illimitatezza del significato espressivo del linguaggio trova la sua realizzazione concreta nell’Infinito dell’essere. Interrogarsi se Dio esiste è fondamentale non per l’uomo religioso che non dubita della realtà Dio, ma per il filosofo che tende a trovare la giustificazione di tutto l’essere e quindi di Dio, che di tutta la realtà è fondamento adeguato.
L’A. si domanda giustamente come sia conoscibile e dimostrabile l’esistenza di Dio. Egli rileva giustamente che per raggiungere questo scopo sono state proposte diverse vie. Premesso che ogni vera dimostrazione che porta a Dio non può non essere “metafisica”, cioè trascendente ogni natura fisica nello spirito della seconda navigazione platonica, rigetta le prove “ontologiche”, quelle cioè che tendono di raggiungere Dio partendo dal concetto stesso di Dio che nella sua essenza include la sua esistenza. Riteniamo valido il procedimento razionale seguito dal nostro Autore, poiché le prove ontologiche presuppongono quello che devono dimostrare. In effetti, l’insufficienza delle prove ontologiche non sta tanto nel passaggio indebito dall’ordine logico (concetto di Dio) all’ordine ontologico (realtà di Dio), ma nel fatto che il nostro intelletto non ha Dio come suo oggetto proporzionato e immediato, ma le realtà finite la cui conoscenza ci conduce per via dimostrativa a quella di Dio loro primo principio e ultimo fine di tutto. Per questo motivo l’esistenza di Dio non ci è nota immediatamente quoad nos rispetto al nostro intelletto. Una prova a priori della esistenza di Dio, per essere valida, dovrebbe presupporre l’esistenza di Dio. Ora non c’è nessun argomento del genere che preceda l’essenza di Dio.
Quello che di vero è contenuto nelle prove ontologiche è l’affermazione della esistenza di una Realtà assoluta, ma non già la conoscenza della natura della Realtà assoluta. La determinazione della natura della Realtà assoluta non è evidente, essendo filosoficamente diversi i sistemi riguardanti la natura di codesta realtà (c’è la visione spinoziana, la visione idealistica, la visione schopenhariana, la visione materialistica, la visione dualistica platonico-aristotelica, la visione sartriana ecc.). L’evidenza della esistenza di una realtà assoluta è contenuta in questa proposizione: se esiste qualche cosa, qualche cosa esiste necessariamente ed eternamente. L’esistenza di una realtà assoluta ci conduce, tramite un ragionamento, alla esistenza dell’essere sussistente.
Il cosiddetto argomento ontologico è evidente quanto alla esistenza della Realtà assoluta, non già quanto alla determinazione della sua NATURA se cioè è una realtà immanente o trascendente. Ritengo che il nostro A. condivida questa nostra posizione.
Nell’esposizione delle diverse prove “ontologiche” fatta dal nostro A. merita di essere rilevata la profonda conoscenza che egli ha del pensiero del Beato Giovanni Duns Scoto, il quale se, da una parte, mette in evidenza la debolezza argomentativa della ratio Anselmi, dall’altra propone una robusta argomentazione che conduce alla prova apodittica di Dio come Primo efficiente, Fine ultimo di tutto il creato ed Essere perfettissimo, cioè infinito. Questo è il secondo pregio dell’opera del nostro A.
L’A. passa alla esposizione delle vie tomistiche nella quale non si limita ad esporre il contenuto, ma tiene conto anche delle obiezioni contro la loro validità mosse dal pensiero moderno e contemporaneo evidenziandone la loro inconsistenza dimostrativa.
A proposito della prima via, la più evidente, l’A. rileva giustamente che il divenire è non-avere ancora la determinazione che si acquista quando il divenire è compiuto; il non aver ancora indica anche un poter-avere, che poi si trasforma in un avere-in-altro. Il passaggio dal non avere la determinazione all’acquisto di essa presuppone necessariamente un “movente”, una causa che comunichi la determinazione che il diveniente non aveva ancora. Il divenire è pertanto inintelligibile senza il movente, cioè la causa.
La negazione del principio di causalità, conclude l’A., conduce inevitabilmente alla negazione del principio di non contraddizione, che enuncia la legge fondamentale dell’essere, cioè la opposizione e divaricazione totale dell’essere dal nulla. Se il diveniente potesse attualizzarsi da sé, l’essere, la determinazione verrebbe dal nulla e quindi si avrebbe cioè l’identificazione dell’essere col nulla. Cosa assolutamente impossibile. L’A., prendendo in considerazione le obiezioni provenienti dalla fisica moderna (legge d’inerzia, legge della gravitazione universale, legge della relatività generale di Einstein, processi nucleari), fa rilevare che esse non comportano la negazione del movimento quale passaggio dalla potenza all’atto, poiché anche nell’ipotesi dell'”automovimento” nei processi nucleari, un automovimento dentro un sistema non è pienamente intelligibile se non si capiscono le cause del movimento dell’intero sistema, che rendono possibile i movimenti microscopici al suo interno. Il nostro A. intende asserire che ovunque c’è dell’autentico movimento o passaggio dalla potenza all’atto (ivi), c’è un autentico divenire e quindi un influsso reale di un ente (il movente) su di un altro ente (effetto).Giustamente egli conclude il suo discorso sulla prima via affermando che spetta alla metafisica e alla filosofia della natura giustificare adeguatamente la dottrina della potenza e dell’atto, che è fondamentale per “salvare” l’essere del divenire ridotto a pura apparenza dall’eatismo e da altre forme di monismo. Il termine della prima via è Dio quale motore immobile, cioè è Dio quale Principio primo trascendente di ogni trasformazione materiale e spirituale che avviene in tutta la realtà.
L’A. mette in rapporto l’immutabilità di Dio che è una proprietà essenziale dell’Essere divino con quanto afferma la Fede cristiana sull’Incarnazione e la Redenzione, eventi che non comportano in Dio alcun mutamento. La verità filosofica sull’immutabilità divina è compatibile con il Dio della Rivelazione.
L’A. approfondisce il problema della causalità in generale e quello della divina in particolare su Dio causa prima di tutti gli effetti e di tutte le cause dell’universo. Nella prima via si considerano gli enti nel loro divenire o essere prodotti, nella seconda via gli enti in quanto comunicano l’essere alle realtà che vengono prodotte. L’A. osserva giustamente che l’efficacia dimostrativa della seconda via è connessa con il principio di causalità, cioè con la causalità efficiente quale legge universale dell’essere. Egli rivela giustamente la falsità della critica kantiana alla prova cosmologica, poiché è radicata nella riduzione della causalità al mero ambito fenomenico. La trascendentalità non è una pura forma del conoscere, ma è principalmente logos, interpretazione dell’essere che viene colto dal pensiero nella sua vera entità cioè in modo oggettivo. L’A. rigetta la dottrina humiana e kantiana sulla causalità, sia perché entrambi i loro Autori negano l’analiticità del principio e sia perché poggia su di un presupposto epistemologico errato che fa del tempo una intuizione pura a priori, cioè una rappresentazione temporale delle cose avente il carattere della necessità.
Ora è innegabile che qualsiasi rappresentazione avente il carattere della necessità non può appartenere all’ordine della intuizione di carattere sensibile, perché il sensibile ha come oggetto ciò che è individuale e soggetto alle determinazioni spazio-temporali, le quali non sono soggette alla necessità. Il tempo quale rappresentazione pura esula del tutto dall’ordine della sensibilità, poiché nella sua natura è dell’ordine concettuale cioè di natura intellettuale e quindi universale. Negli animali la cui conoscenza è soggetta allo spazio tempo non c’è affatto il tempo come intuizione pura o rappresentazione pura dotata di carattere universale e necessario.
Interessante è pure quanto l’A. rileva a proposito del rapporto tra il contingente e il necessario nella terza via tomistica, la quale mette in rilievo la dipendenza radicale della realtà finita dell’uomo, degli spiriti puri e del mondo da un Altro che è assolutamente oltre il mondo della finitezza. L’A. osserva che per S. Tommaso la realtà si divide in enti contingenti, in enti necessari ab alio e in Dio-Ente necessario di per se stesso. La prova comporta l’esistenza di enti che sono corruttibili quanto alla loro essenza a motivo della loro composizione di materia e forma; l’esistenza di enti incorruttibili a motivo della loro assenza di composizione di materia o forma nella loro essenza ma la cui esistenza non ha in loro la ragione del suo essere a motivo della loro struttura metafisica di enti per partecipazione.
La nozione di contingenza ha un significato particolare nella filosofia di S. Tommaso, essa non abbraccia allo stesso modo l’esistenza degli enti corruttibili e quella degli enti incorruttibili, sebbene tutti abbiano il fondamento del loro essere nell’Essere necessario per essenza. Di conseguenza la distinzione creatura-Creatore, rileva l’A., non si desume dalla distinzione contingente-necessario ma dalla distinzione tra gli enti per participationem comprendente gli enti corruttibili e gli enti incorruttibili (i necessari ab alio) e lo Esse per essentiam o l’Esse subistens che è Dio.
Poiché il contingente dice dipendenza da un Altro nell’essere, ci permette di capire in qualche modo come il sentimento di dipendenza o “sentimento creaturale” espresso da Schleiermacher evidenzi un carattere specifico della esperienza religiosa degli uomini di tutti i tempi. L’A. termina le sue riflessioni sulla terza via dando la risposta alla domanda posta da Leibniz e ripresa da Heidegger: «Perché c’è l’essere piuttosto che il nulla?». L’Essere primariamente dice necessità ed esclude il nulla suo contraddittorio. Il necessario è il fondamento di tutto ciò che è contingente. La terza via chiamata da Kant “a contingentia mundi” non è riducibile all’argomento ontologico. A questo punto avremmo desiderato dal nostro A. una messa a punto alla obiezione kantiana, la quale non coglie il segno poiché l’esistenza del Necessario non è dedotta dalla nozione di Essere perfettissimo, ma dalla esistenza ontologica del contingente che rinvia all’Essere necessario quale suo fondamento.
L’esposizione della quarta via è preceduta da una esposizione della via dei gradi di perfezione nel platonismo, nell’aristotelismo, nel pensiero filosofico cristiano quale viene espresso da Agostino, Boezio e Anselmo prima di Tommaso. L’Angelico partendo dalla gerarchia ontologica dei gradi constata la diversità del possesso delle perfezioni pure esistenti nelle creature, le quali rimandano al Massimo essere quale loro causa esemplare ed efficiente del loro essere. La molteplicità rinvia all’Uno. La quarta via ci offre il punto più alto della speculazione metafisica di Tommaso, la quale ha il suo fondamento radicale non già nel principio di causalità, ma nella struttura stessa dell’ente finito che è ente per partecipazione. S. Tommaso è molto chiaro al riguardo: «Sebbene la relazione alla causa non entri nella definizione dell’ente, che è causato, tuttavia consegue da quelle cose che sono della propria ragione, perché per il fatto che un qualche ente è tale per partecipazione consegue che è causato da un altro. Pertanto un ente del genere non può non essere causato. Poiché l’essere causato non appartiene alla ragione di ente semplicemente , consegue che qualche ente non causato» (Summa theologiae, I, q. 44, a 1, ad 1).
L’A. espone con la massima chiarezza la quinta via prendendo in esame le varie obiezioni fatte dagli avversari che attribuiscono al caso l’ordine esistente dell’universo. La risposta alle obiezioni è di una chiarezza e lucidità encomiabile. In modo particolare sono degne di essere rilevate le osservazioni che l’A. fa alla esposizione della prova teleologica fatta da E. Kant e alla critica fattane da Hegel. La riflessione kantiana è insufficiente, mentre quella hegeliana presuppone ai fini della sua validità la concezione dell’Assoluto come Totalità. Visione panteistica della realtà e quindi inaccettabile. Ottime le riflessioni sul finalismo e messo in relazione col determinismo delle leggi ma presentato però da S. Tommaso in modo non rigido ma attenuato. L’A. ritiene che la quinta via abbia come momento conclusivo l’inferenza dell’Ordinatore supremo, la cui natura rimane “nel vago”. Noi riteniamo che l’Ordinatore supremo sia anche Creatore dei corpi naturali perché il finalismo dei corpi naturali è insito nella loro stessa struttura, non è esterno ai suddetti corpi come è quello delle parti dell’orologio, ma è interno alla loro natura e struttura. Autore di questo finalismo può essere solo colui che è il creatore dei corpi naturali, perché il finalismo dei corpi naturali non è esterno ai corpi stessi come possono essere le varie parti che compongono un orologio o altro artefatto dagli uomini, ma è interno alla struttura dei corpi naturali. L’Autore di questa struttura non può essere altro che il Creatore dei corpi naturali. Il finalismo interno dipende dalla causa esemplare che concepisce e struttura con la intelligenza gli enti quale partecipazione del suo essere divino.
Molto equilibrato e profondo è il giudizio dell’A. sulle prove denominate “antropologiche”, “deontologiche” ed altre riguardanti l’esistenza di Dio. Esprimiamo il nostro consenso su quanto egli afferma a loro riguardo.
Il volume denso di dottrina da ultimo tratta di Dio Creatore provvidente dell’universo.
Tutto quello che l’A ha affermato sulle prove riguardanti l’esistenza di Dio presuppone la capacità della nostra mente a trascendere il creato il contingente e il finito per raggiungere l’Increato, il Necessario e l’Infinito. Ci troviamo davanti al problema del linguaggio su Dio che l’A. tratta in modo magistrale. Ci permettiamo di fare una sola raccomandazione all’A. e cioè di chiamare Dio non “analogatum princeps”, ma “analogante Creatore” secondo la bella espressione del filosofo lovaniense N. Balthasar contenuta nel suo Mon moi dans l’être (Louvain 1943). Dio non è il termine dell’analogia quale primo della serie degli enti creati, ma è colui che, in qualità di Essere per essenza, fonda l’analogia cioè la somiglianza tra i vari enti finiti. Dio creando pone in essere gli enti che sono simili a Lui e fra di loro, rimanendo al di sopra di tutti gli enti finiti.
L’A. tratta con competenza il problema della personalità di Dio evidenziando la singolarità, l’individualità e l’incomunicabilità della natura divina per cui non possono esservi più nature divine, ma soltanto una natura divina posseduta da tre individui o persone intese come “relazioni sussistenti” nell’unicità della natura divina. L’unicità di Dio non crea problemi al dato della Rivelazione cristiana relativo alla Trinità delle Persone nell’intimità della natura divina. La tesi filosofica relativa alla personalità di Dio non cozza contro la Trinità cristiana, poiché la personalità divina designa la distinzione dell’Essere divino dal mondo, cioè la sua trascendenza, mentre la Trinità cristiana designa la struttura intima della natura della personalità di Dio, il quale è tre volte persona, cioè tre volte sussistente nel possesso della natura divina. Il problema di Dio ha il suo significato solo se è fondato in una metafisica dell’essere che accetti l'”analogia entis” e il principio di causalità. Il discorso filosofico è condotto a termine dal nostro A. con la trattazione di Dio Creatore. L’attività della causa prima è primariamente creatrice, poiché della realtà creata niente esiste prima della sua produzione in quanto la realtà creata viene prodotta secondo tutta la sua sostanza. La totalità della realtà creata è termine immediato della sola volontà creatrice. La produzione della cosa dal nulla non significa che la cosa venga prodotta dal nulla come da una causa materiale, ma che essa riceve tutto l’essere dalla Causa creatrice, senza alcun presupposto. Con la creazione la realtà che non esiste affatto riceve tutto l’essere per il quale esiste, è formalmente ente. L’A. espone molto bene l’espressione creatio ex nihilo escludendo l’esistenza del nulla “prima” della totalità del reale e affermando invece che tutto l’essere dell’ente senza alcuna eccezione deriva da Dio Principio Primo di tutto ciò che esiste distintamente da Lui. Sono evidentemente false tutte le tesi del neoeleatismo e del neoparmenidismo che criticano il creazionismo cristiano di contraddittorietà quasi ammettesse l’essere del non essere come se il nulla fosse principio costitutivo della creatura.
A questo punto l’A. dà una chiara esposizione e confutazione del sistema hegeliano per il quale l’atto creativo è un autoporsi dell’Atto di modo che gli enti finiti e i loro rapporti sono sue determinazioni e non suoi effetti oggettivi reali-distinti e diversi come è nella concezione tomista della causalità divina. La concezione hegeliana, nota l’A., è evidentemente un panteismo naturalistico, il quale concepisce tutto l’essere come eterno che si evolve autodeterminandosi cosicché come “senza Dio il mondo è niente così pure senza il mondo Dio è nulla”.
L’A. a questo punto facendo un confronto tra la concezione tomistica del rapporto metafisico tra essere e nulla e quella hegeliana afferma chiaramente che il nulla precede l’ente perché l’ente, che è una realtà finita non è l’essere, il nulla mette in evidenza la finitezza dell’ente, poiché non entra come elemento costitutivo del reale, ma riporta il limite, cioè la finitezza del reale all’Essere quale suo fondamento, che fa sì che l’ente, che non esiste per propria virtù, esista in forza della sua volontà onnipotente. In questo senso il terminus a quo della creazione è il nulla e non la materia prima, la quale non è puro non essere, ma parte dell’ente intrinsecamente positiva.
L’A. mette in evidenza le caratteristiche dell’atto creativo la libertà e la gratuità, mentre l’effetto dell’atto creativo, cioè l’universo chiamato all’esistenza, ha inizio nel tempo, ma avrebbe potuto essere creato ab aeterno secondo la tesi di Tommaso accettata dal prof. Pangallo.
La conclusione del discorso del nostro A. ha termine con la trattazione sulla Provvidenza divina che regola tutta l’attività delle creature conducendola al fine ultimo e ai rispettivi fini particolari. Ottime le sue riflessioni sull’intero argomento. Il trattato filosofico su Dio Creatore viene dall’A. messo in rapporto col mistero della Trinità, verità di fede, in vista di una visione più perfetta della Vita divina ma anche come una feconda via speculativa per capire meglio il mondo e l’uomo. Ci congratuliamo con l’A. per il suo ottimo volume cui auguriamo vasta diffusione.